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Wall, che cosa si dicono nel lightbox i soldati morti?

Wall, che cosa si dicono nel lightbox i soldati morti?Jeff Wall, "Dead Troops Talk", 1992, lightbox

Le immagini della guerra: Jeff Wall Con «Dead Troops Talk» (Afghanistan, guerra sovietica) il fotografo canadse penetra in una dimensione ambigua e interstiziale, né vita né morte. Un minuzioso lavoro di ricreazione artificiale (era il 1992), un’incombente, quasi allucinatoria presenza visiva: da leggere con Sontag, Bataille e Hillman

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 21 agosto 2022

La scena è spaventosa. Un costone arido, terra smossa, massi, detriti. Tredici soldati in vecchie uniformi sovietiche, i corpi straziati, coperti di sangue, ferite, ustioni: chiaramente morti eppure ancora vivi. Uno di loro sembra meditare assorto, la mano sulla testa a palpare una ferita, un altro scuote un compagno esanime, un altro ancora si solleva incredulo, la testa sfigurata, le mani mutile e bruciate, mentre altri sembrano impegnati in scherzi macabri, indifferenti al loro stesso destino. Altre figure, guerriglieri mujaheddin, frugano nei loro zaini o ammucchiano in un angolo fucili e munizioni. La fotografia dell’artista canadese Jeff Wall si presenta con la disturbante oggettività di un’istantanea dal campo di battaglia ma è in effetti il risultato di un minuzioso lavoro di ricreazione artificiale: scenario e attori sono stati fotografati in studio, in singole sezioni poi assemblate con strumenti digitali, per l’epoca del tutto innovativi. Il titolo completo è Dead Troops Talk (A vision after an ambush of a Red Army patrol, near Moqor, Afghanistan, winter 1986), la data il 1992, le misure 229 x 417 cm.
In questo lavoro, come del resto in tutta la serie dei suoi lightboxes – diapositive retroilluminate di grandi dimensioni –, Wall propone una sintesi originale tra i «formati» del quadro di storia ottocentesco (da cui deriva la struttura piramidale della composizione), del panorama dipinto e dello schermo cinematografico, puntando a una resa minuziosa degli effetti realistici della scena, così da creare una incombente, quasi allucinatoria presenza visiva. Nonostante la precisa localizzazione fornita dal titolo, Dead Troops Talk non documenta le conseguenze di una sanguinosa imboscata nell’Afghanistan occupato dall’esercito sovietico. La scena rappresentata è chiaramente una creazione fantastica, una visione – come dice il titolo – che fonde incongruamente reportage di guerra e cinema horror, humour noir e realismo macabro, i Disastri della guerra di Goya e La zattera della Méduse di Géricault, la retorica marziale di Gros e il magniloquente naturalismo di Repin.
Al centro dell’immagine si staglia l’enigma di resurrezioni grottesche e orripilanti, i giochi insensati dei soldati, l’incredulità che si legge sui loro volti. Cosa si stanno dicendo? «Volevo evocare una discussione tra chi era stato ucciso e chiedermi cosa avrebbero avuto da dirsi dopo essere stati uccisi», ha commentato Wall parlando del lavoro nel 2006. Ma cosa significa per i caduti ritrovarsi «dall’altra parte»?
Questo è in effetti il vero oggetto della meditazione di Wall. I morti sono «del tutto disinteressati ai vivi: a coloro che hanno tolto loro la vita, ai testimoni e a noi» ha scritto Susan Sontag in Di fronte al dolore degli altri. «Noi», gli spettatori, i viventi, non abbiamo esperienza di ciò che i soldati uccisi hanno vissuto, «non possiamo capire. Non possiamo immaginare». La fotografia diviene dunque l’opposto di un documento: ciò che essa mostra non è lo scenario crudele dopo una battaglia, ma la non immaginabilità dell’esperienza della guerra, la sommersione degli individui che ne sono afferrati in un’esperienza totale, oscura, irriferibile. La guerra come frontiera invalicabile, come spazio muto, definitivamente antiumano, come già aveva intuito Walter Benjamin a proposito dell’esperienza dei reduci della Prima guerra mondiale.
D’altro canto, il fatto che la fotografia, con tutta la sua potente suggestione di testimonianza oculare, mostri proprio nei fatti bellici la sua natura ambivalente non è una scoperta di Wall. Sin dalle immagini di Roger Fenton della guerra di Crimea, a metà Ottocento, e attraverso gli innumerevoli conflitti moderni fino alle guerre anticoloniali, al Vietnam, alla guerra del Golfo, all’intifada palestinese, all’Afghanistan, alla Siria e oggi all’Ucraina, la fotografia ha testimoniato gli orrori bellici ma ha anche fatto emergere il suo potenziale di manipolazione e strumentalizzazione, di rivelazione e di occultamento. Perversamente, le prove fotografiche delle devastazioni e delle uccisioni più recenti sono state additate dai loro responsabili come montature della propaganda nemica, proprio come avevano fatto franchisti e fascisti all’indomani della distruzione di Guernica.
Per scendere più a fondo nel paesaggio della guerra occorre passare dallo scenario alla nuda presenza umana, stringere l’inquadratura sui volti delle vittime. Fu questa la strategia adottata da un memorabile libro fotografico del 1924 del pacifista tedesco Ernst Friedrich, Krieg dem Kriege! (Guerra alla guerra!), che raccoglieva, insieme a cruente immagini dai campi di battaglia, un’agghiacciante serie di ventiquattro primi piani di fisionomie devastate, le gueules cassées, le facce rotte che di ogni conflitto moderno sono poi il vero, intollerabile volto. Nel libro di Friedrich la morte appare evocata non come il sottoprodotto o il «danno collaterale» della guerra, ma al contrario come la sua sostanza prima, la sua verità: guardare in faccia le vittime della guerra significa reclamare la loro dignità perduta, mantenere per i vivi la promessa di una giustizia, di una continuità che la guerra si illude sempre di poter interrompere. Significa anche riconoscere l’esistenza del «dominio dei morti», come lo ha chiamato Robert Pogue Harrison, lo spazio simbolico dove ormai abitano i soldati dell’immagine di Jeff Wall, e su cui le società umane edificano e faticosamente tramandano la propria eredità.
Per essere veramente compresa, la guerra esige d’altro canto un salto immaginativo non meno straordinario del fenomeno stesso, una capacità di penetrazione acuita dalla consapevolezza che nella sua natura terrificante si svela la fondamentale ambivalenza della psiche umana. Ciò che la guerra attiva e rende visibile è in effetti la pulsione di morte, la sua azione perturbante e distruttiva, come sappiamo da quando Freud l’ha individuata in Al di là del principio di piacere. Nella guerra, come nella morte, «il disgusto e la seduzione febbrile si uniscono, si esasperano (…). Non si tratta più dell’annullamento banale, ma del punto stesso in cui l’avidità ultima e l’orrore estremo si scontrano», scriveva Bataille ne L’esperienza interiore, un abisso dove «la passione che impone tanti giochi o sogni spaventosi è non meno il desiderio violento di essere io che quello di non essere più nulla».
E non è dunque la guerra, in cui una lunga tradizione identifica a ragione uno strumento della politica, ma l’amore per la guerra a costituire il grande enigma. È la sua potenza di corruzione, l’alone mitico che il conflitto riverbera sulle coscienze, il suo incessante riproporsi come esperienza limite, orgiastica e meravigliosa, a costituire, come ha ricordato lo psicoanalista James Hillman, il più grande ostacolo alla sua eliminazione. Per penetrare la natura ambigua della guerra occorre insomma raggiungere gli strati più nascosti della psicologia individuale e collettiva, farsi strada attraverso ossessioni e rimozioni, sino alle strutture più profonde. E per fare tutto questo è necessario un evento, un caso che dia a questa realtà rimossa l’occasione di trapelare dal buio in cui è per definizione confinata. Una fotografia, anche.
In Dead Troops Talk Jeff Wall usa l’immagine per penetrare in una dimensione interstiziale, né vita né morte, uno spazio inaccessibile all’immaginazione, non simbolizzabile dalla parola. La fotografia non è qui solo la prova di un inesauribile desiderio di appropriazione estetica, di una compulsione alla registrazione visiva che pone l’operatore in una posizione di dominio e di possesso, anche della morte. Nella sua stessa sostanza figurativa, alla frontiera tra invisibile e immaginabile, l’artista canadese mostra invece come essa possa diventare il luogo di uno spasmo, di uno strappo in cui pulsa ciò che non possiamo conoscere per definizione, il punto cieco dell’esperienza umana: l’impossibile, il reale dall’altra parte, che solo in forma indiretta, in assenza, per enigma, ci è dato di presentire.

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