Volponi, animale e corporale, i suoi versi materici inscritti nel paesaggio
Nell’anniversario della nascita di Paolo Volponi (1924-1994) Einaudi propone una nuova edizione delle sue Poesie (Einaudi «ET Poesia», pp. XLI-482, € 16,00) a cura del maggiore interprete dello scrittore urbinate, Emanuele Zinato, già curatore, una ventina di anni fa, di un volume omonimo che riuniva la raccolta antologica Poesie e poemetti (uscita nel 1980) – nella quale rifluiva la prima stagione della poesia volponiana (dal Ramarro alle Porte dell’Appenino), insieme con la plaquette Foglia mortale (scritta fra il 1962 e il 1966, ma edita solo nel 1974, a ridosso di Corporale) – e le due ultime raccolte Con testo a fronte (1986) e Nel silenzio campale (1990), inclusi alcuni testi inediti o dispersi in appendice.
Il meritorio progetto einaudiano di riportare Volponi nelle librerie è cominciato da alcuni anni. L’anno scorso è stato ristampato Il leone e la volpe. Dialogo nell’inverno 1994; quest’anno La macchina mondiale («ET Scrittori», pp. 215, euro 12,50), che Volponi pubblicò nel 1965 aggiudicandosi il primo Premio Strega; infine, da qualche settimana sono disponibili, in formato e-book, i tre volumi di Romanzi e prose, in cui avevano rivisto la luce, grazie all’ottima curatela di Zinato, l’intera produzione narrativa di Volponi con un’attenta scelta di «prose minori» (interventi, saggi, racconti).
Si aggiungeranno altre importanti iniziative editoriali intese a riproporre vecchi e nuovi segmenti dell’opera di Volponi e a riflettere su un’idea di letteratura che non cessa di difendere e rivendicare, di fronte alle regole di un sistema economico nella sua fase di feroce concentrazione monopolistica, princìpi di giustizia sociale e di «liberazione del mondo» (così in un’inchiesta su La morte del comunismo, per «Il venerdì di Repubblica», 6 settembre 1991). Un diritto che si àncora a un progetto più ampio di dignità dell’uomo, a un orizzonte storico ancora inesplorato ma non irraggiungibile, che si riaggancia a Pasolini, al «sogno di una cosa». Nessuna visione palingenetica, ovviamente: la letteratura che ha in mente Paolo Volponi è quella che «rompe» la realtà (così in un intervento su Le difficoltà del romanzo, del 1966), cioè la mette in discussione, ne scova le contraddizioni e magari ne indica le soluzioni, senza accomodamenti ottimistici, tutt’altra, e quindi non l’accetta così com’è, magari edulcorata, sotto una veste estetizzante, adatta a un pubblico che chiede solo svago.
Mi pare importante sgombrare l’approccio all’opera di Volponi da ogni pregiudizio imposto da parametri eccessivamente ideologizzanti che rischiano di soffocare la figura dello scrittore affiliandola sic et simpliciter a un preciso schieramento (senza nulla togliere all’adesione appassionata, nell’ultima parte della sua vita, prima al PCI, poi a Rifondazione Comunista). Si può anche chiosare che in quanto intellettuale, più che organico a un partito, al suo «apparato», alla sua «etichetta», Volponi appare organico a un’idea di comunismo come «possibilità storica». È una concezione politica che affonda il suo significato nella radice semantica di polis, in cui si realizza il programma – democraticamente condiviso, partecipato, inclusivo – di una «cultura industriale» intesa a dimensione d’uomo.
Che cosa c’entra tutto questo con il Volponi poeta? C’entra perché la dimensione del poeta si fonde intimamente – maturando nel corso degli anni attraverso l’esperienza e il confronto – con la dimensione del Volponi dirigente, politico, pubblicista, intellettuale, nonché con quella del raffinato collezionista d’arte, che ha investito i proventi dei suoi stipendi, delle sue consulenze, non in azioni da giocare in borsa, ma nell’acquisto di opere d’arte (in particolare quadri dal Trecento al Seicento, ma anche del Novecento) da mettere un giorno a disposizione della collettività (oggi la Collezione Volponi è visitabile presso la Galleria Nazionale della Marche del Palazzo Ducale di Urbino).
Eppure tutto comincia, per il giovane Volponi, con il Ramarro, nel cui titolo si inscrive a mo’ di logo, con apparente semplicità e levità di scrittura, la selvatica e inestinguibile presenza dell’«animale», ossia un desiderio di natura che non nega l’umano («l’unica cosa sacra è ancora l’uomo, pure dentro l’industria, come dentro qualsiasi struttura», scrive Volponi in una lettera a Carlo Bo il 12 gennaio 1962), anzi ne esalta la contraddittoria presunzione, incalzandolo tra squarci di realismo ora post-lirico ora, più polemicamente, espressionista e accensioni metaforiche e, perfino, allegoriche. Animale, dunque, e corporale: è tra questi due termini distinti ma contigui che trova il suo baricentro la scrittura di Volponi, densa e materica, pronta a recuperare la sostanza naturale dell’uomo sottraendola alla logica artificiale dei meccanismi di produzione di un agognato ma problematico benessere e della sua effettuale socialità che ne viene condizionata.
In tal senso, è bene mettere in luce il percorso che dalla prima raccolta poetica di Volponi (integralmente recuperata in questa nuova edizione di Zinato) porta a quelle immediatamente successive, imperniate sulla descrizione dei difficili rapporti che la «persona» dell’autore, la sua maschera lirica, intrattiene con un paesaggio, e in particolare quello urbinate, vivo non come un lontano ricordo, ma presente, intrinseco alla situazione poetica, con la sua forza attrattiva e insieme revulsiva.
È un paesaggio, si badi, che non si limita a incorniciare le questioni interiori (all’insegna de La paura si apre uno dei poemetti più intensi, dedicato agli amici di «Officina»: Pasolini, Leonetti e Roversi), ma le rimanda al soggetto da una superficie levigata e tuttavia ruvida, porosa e insieme urticante, come in certi memorabili passaggi che incontriamo già a partire da Il giro dei debitori, e riconosciamo meglio, nella loro valenza ossimorica, in testi quali Le mura di Urbino, sin dal famoso movimento incipitario: «La nemica figura che mi resta, / l’immagine di Urbino, che io non posso fuggire, / la sua crudele festa, / quieta tra le mie ire…»). Tale attrito fra io e mondo non si congela nello schermo lucido di una identificazione in fondo riuscita ne Le porte dell’Appennino, presto increspata nel nuovo sentiero che si apre con Foglia mortale (in cui l’istanza di una semplice Pretesa d’amore, o i messaggi riposti in un’Agendina dimenticata o in una Canzonetta con rime e rimorsi, si traducono in una labile confessione di crisi), ma comincia presto a riconfigurarsi in una galleria di figure in rotta con la propria condizione esistenziale e sociale e alla ricerca di una nuova (da Albino Saluggia ad Anteo Crocioni a Gerolamo Aspri), onde concludersi nel conflitto che da un lato induce il Volponi di Con testo a fronte a portare sulla carta l’apprensione di un progetto (quello olivettiano di un’industria non asservita al profitto, ma in funzione dell’uomo) svilito e dileggiato, quotidianamente offeso, e dall’altro lato fa esplodere dissenso, disillusione, amarezza, e così via, nei confronti di una rivoluzione «industriale» mancata di cui le vicende di Bruto Saraccini, protagonista de Le mosche del capitale (recentemente riedito da Einaudi, con introduzione di Massimo Raffaeli), rappresentano la parabola metaforica. Due libri che compongono, in un’ideale visione sinottica, fronte e verso di una dolorosa riflessione sul destino del paese affiancandosi a un altro importante versante dell’opera di Volponi, tutto da indagare e valorizzare: quello dei discorsi parlamentari e dei disegni di legge, e dell’attività di pubblicista.
Eletto senatore nelle file del PCI nel 1983, Volponi continua l’impegno non per una Repubblica borghese (come recitava il primitivo titolo de La strada per Roma, romanzo già avviato all’inizio degli anni sessanta, pubblicato solo nel 1991), ma per una repubblica di cittadini consapevoli e attivi. Un impegno che si consuma nell’ultima battaglia, com’è vero che dopo la caduta del muro di Berlino, lo scioglimento del Partito Comunista e la disfatta della Prima Repubblica, Volponi sembra presagirne l’esito nefasto, pubblicando nel 1990 l’ultima raccolta, dal titolo allarmante, ancorché gravido di attesa, Nel silenzio campale. Una risposta a chi proclamava in quegli anni la fine della storia? Ma proprio in quel «silenzio» che dilaga dopo la battaglia, e che Volponi non si esime dall’avvisarci, si può ritrovare la coscienza di un riscatto.
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La mostra di Urbino: 28 teche d’autore per un percorso nella vita e nell’opera
La mostra Paolo Volponi: un itinerario nella vita e nell’opera, inaugurata lo scorso 6 febbraio – giorno del centenario dello scrittore urbinate – presenta manoscritti, foto, video, documenti e testi tratti dall’archivio personale dell’autore che Caterina Volponi ha donato alla Fondazione Carlo e Marise Bo di Urbino. Tutto il materiale, con pezzi di straordinario interesse come la prima pagina manoscritta de La strada per Roma – è stato disposto in ordine cronologico: ventotto teche, distribuite in nove ambienti, ripercorrono i tratti salienti della vita e dell’opera di Volponi, dalle radici urbinati e dal contatto con maestri come Carlo Bo, Adriano Olivetti e Pier Paolo Pasolini, all’impegno politico e all’aggrovigliata stesura dei grandi romanzi. Paolo Volponi: un itinerario nella vita e nell’opera è a cura di Caterina Volponi, Salvatore Ritrovato, Elena Baldoni e Alessio Torino con Alberto Fraccacreta, Marcella Peruzzi, Sara Serenelli e Ursula Vogt. La parte grafica è di ISIA Urbino – Lorenzo Cicinato e Valentina Orfeo con la supervisione di Jonathan Pierini. È possibile visitarla fino al prossimo13 dicembre presso la Fondazione Carlo e Marise Bo, Palazzo Passionei Paciotti, via Valerio 9, dal lunedì al venerdì (ore 09:00 – 13:00; martedì e giovedì anche dalle ore 14:00 alle 17:00).
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