Volontariato a Roma, senza tetto né scuola
Reportage La didattica con i migranti fatta attraverso i cellulari, l'alfabetizzazione, i laboratori creativi, le difficoltà crescenti
Reportage La didattica con i migranti fatta attraverso i cellulari, l'alfabetizzazione, i laboratori creativi, le difficoltà crescenti
Sono passati pochi giorni dall’uscita delle linee guida del Piano scuola 2020-2021 per la riapertura del 14 settembre. Che ne è delle scuole degli studenti più invisibili, con meno mezzi e meno diritti? Sono venuta a farmi raccontare la chiusura della scuola di italiano per migranti della Casa dei Diritti Sociali dai referenti delle varie aree. «Abbiamo chiuso il 25 febbraio. Qui normalmente è strapieno. Insegniamo a 60 studenti contemporaneamente in queste tre aule messe a disposizione dal Comune e c’è la fila fuori. Facciamo anzi facevamo 53 lezioni di livello A1 per principianti da un’ora e mezza più tre di prealfabetizzazione per analfabeti la settimana. Eravamo l’unica scuola di bassa soglia aperta a tutti tutto l’anno. Abbiamo avuto una media di 1.500 studenti l’anno, siamo arrivati ad accoglierne fino a 2.150. I migranti che vengono da noi sanno che c’è lezione di base a tutte le ore e possono venire quando vogliono». Augusto Venanzetti, sindacalista per 30 anni ora in pensione, responsabile della scuola e referente dell’area adulti da 16, è seduto fra pile di pacchi alimentari del Comune di Roma per i senzatetto, e le sue parole risuonano in una classe vuota. Bussa alla porta una donna sudamericana e chiede dei corsi. Le dice: «online!» e le prende il numero di telefono. Sarà richiamata da uno dei volontari dell’associazione (100 in tutta Italia, circa la metà a insegnare italiano qui nella sede romana di via Giolitti).
Whatsapp
«Gli studenti non hanno accesso ai computer, ma hanno tutti lo smartphone, che è l’unico mezzo con cui comunicano con le loro famiglie. Quindi ora facciamo lezione con le chiamate di gruppo su WhatsApp. Chiaramente il mezzo è limitatissimo e manca il contatto, per cui ne abbiamo persi tanti, ma per loro è importante che la scuola rimanga un punto d’appoggio. Saremo autorizzati a riaprire a settembre anche noi, ma per rispettare il distanziamento sociale potremo accogliere solo un terzo degli alunni, e quindi proseguiremo in parallelo con le lezioni online fino a che non ci sarà il vaccino per tutti”. Chi sono questi studenti, da dove vengono? «I flussi migratori cambiano continuamente. Gli studenti dell’ultimo anno provengono per circa il 35% dal Centro e Sudamerica, 26% dall’Africa subsahariana, 23% da Asia e Pacifico, 11% dal Nord Africa e Medioriente e 5% dall’Europa. I più malmessi e meno scolarizzati sono gli africani. Quelli che arrivano qui sono sopravvissuti a viaggi tremendi. Hanno attraversato il deserto stipati su camion sgangherati. Hanno affrontato i predoni. Sono usciti dalla Libia – dove i più fortunati finiscono nei centri di detenzione ufficiali, mentre il doppio invece nei campi delle milizie e lì vengono usati come ostaggi: li costringono a telefonare ai parenti per chiedere il riscatto, e se i soldi arrivano li fanno partire sui barconi fatiscenti, se non arrivano li costringono a lavorare come schiavi. Sono stati torturati, le donne violentate. Nessuno si chiede com’è che sbarcano tutte queste donne incinte! Arrivano 2 anni dopo essere partiti, e spesso il contatto d’appoggio non lo trovano più perché si è spostato chissà dove. Non sanno che fare, sono senza un Euro. Prima di capire che possono mangiare alle mense della Caritas o dormire nei dormitori del circuito del volontariato ci vuole tempo, magari incontrano un connazionale sotto un ponte che consiglia di venire qui, perché se non imparano l’italiano non lavorano manco in nero. Gli uomini in fuga sono smarriti, insicuri, è come se avessero perso una parte di personalità. Le donne sono molto più pratiche, glielo leggi sulla fronte: «questa lingua non mi piace, mi fa quasi schifo ma la devo imparare sennò non lavoro». Ecco perché la scuola di italiano non è solo una scuola: li accogliamo, li aiutiamo, li indirizziamo con lo Sportello. Poi c’è anche il filippino che sta qui da 15 anni e che frequenta solo la sua comunità e si decide finalmente a imparare un po’ d’italiano o i latinoamericani che arrivano in aereo col visto turistico e rimangono diventando irregolari…».
Minori
Daniela Sansonetti, insegnante montessoriana di lettere in pensione è la referente dell’area minori. Le lezioni ai ragazzi delle elementari e medie sono il sostegno propedeutico a dare un’autonomia in classe, a «trasformare gli alunni da spettatori a attori.» I suoi studenti sono diversi da quelli delle lezioni collettive della scuola dell’Esquilino: sono gli stranieri che frequentano le scuole dell’obbligo e che non parlano italiano. «Ho fatto una lezione a una nipotina di tre anni, perché anche gli insegnanti di asilo fanno didattica a distanza. E mio nipote di 6 anni, al 3° anno, ha lezione al computer anche alle 18. Gli stranieri questo ritmo non lo reggono, perché i loro genitori hanno da fare, non li possono seguire, lavorano! Abbiamo mobilitato i ragazzi che svolgono il servizio civile presso la Casa dei Diritti Civili per non perdere il contatto con gli alunni che all’inizio tendevano a scappare. Poiché i nostri insegnanti hanno una formazione molto forte stiamo riuscendo a lavorare anche in remoto». Ritaglia il tempo per parlare con me da quello dedicato al nipote a cui sta facendo far i compiti, poiché i genitori del bambino sono occupati a loro volta a lavorare da casa.
Il teatro
Magda Mercatali dirige il laboratorio teatrale unendo le 2 grandi passioni della sua lunga vita: il teatro e il sociale. Poiché l’insegnamento dell’italiano è basato sull’approccio comunicativo, le attività culturali che s’intrecciano alla didattica sono ritenute importantissime. «Come diceva Ken Loach bisogna dare il pane e le rose e io voglio dare le rose. Il teatro è terapeutico. Abbiamo fatto laboratori con adattamenti da Shakespeare, Cecov, Edgar Lee Masters, Achille Campanile… quest’anno avremmo già debuttato al teatro Belli con l’Orlando Furioso, invece stiamo lavorando su WhatsApp e speriamo di andare in scena entro fine anno. Paghiamo gli studenti che partecipano ai laboratori perché il lavoro è sacro e deve essere retribuito: 250 Euro che sono niente, ma per noi tirarli fuori è un’impresa – parte vengono dall’incasso dei biglietti degli spettacoli, parte da donazioni di amici. Quando arriviamo al momento del debutto dico agli studenti che il mio lavoro è finito e che lo spettacolo è loro, lo devono fare bene e difendere. Che devono essere fieri e orgogliosi del percorso che hanno fatto: erano gli ultimi, hanno lasciato alle spalle storie da incubo, e questa sera il pubblico ha pagato per venirli a vedere sul palcoscenico e li applaudirà. Alla fine del mio discorso piangiamo tutti quanti».
Florinda D’Amico, insegnate di italiano per stranieri, è la referente dell’area pre alfa per analfabeti nella lingua madre, quasi tutti 20-25enni subsahariani. «Vorrei richiamare l’attenzione sugli analfabeti, che sono i più invisibili, i più esclusi soprattutto in una società tutta basata sul segno scritto. Attenzione che deve essere manifestata anche alle istituzioni perché il volontariato non ce la fa da solo a far fronte al Covid. Abbiamo bisogno di sedi e strumenti. Finora noi insegnanti in qualche modo ci siamo arrangiati portando a scuola i nostri cellulari, tablet e computer.
Nel primo periodo di lockdown gli stranieri non si vedevano più per strada: erano diventati ancora più invisibili. Che società, che comunità generiamo, di analfabeti? Non occuparsene e come al solito demandare al terzo settore è pericoloso. Chiaramente noi non dobbiamo sostituirci alle istituzioni, ma per me come per tanti, in un momento storico in cui ci sentiamo poco rappresentati, il nostro è un atto politico».
Percorsi formativi
Che bella società civile. Sarebbe interessante sapere qualcosa di più sulla storia di questa scuola e dei suoi principi. «È iniziata nei primi anni ’80 – racconta Augusto – quando il flusso migratorio è diventato sostanzioso e le organizzazioni di volontariato iniziavano a fare i corsi per immigrati 13 anni prima della scuola pubblica che si è organizzata solo nel 1997. Noi lavoriamo per favorire l’inserimento sociale, la ricerca del lavoro, l’allargamento della sfera relazionale. La parola integrazione non ci piace, perché significa l’adeguamento di una cultura a un’altra, semmai quella giusta sarebbe interazione. Siamo convinti che il mix di culture, linguaggi, codici etici e comportamentali debba creare sempre nuove identità collettive, che si debba cambiare tutti insieme.
Per questo l’insegnante deve fare un percorso formativo continuo, diventando di fatto anche mediatore culturale. La Casa dei Diritti Sociali ha anche uno Sportello con volontari legali e medici e una psicologa che assistono stranieri e italiani in difficoltà. Li aiutiamo a conoscere i loro diritti: per esempio anche gli irregolari hanno diritto all’assistenza sanitaria. Ora è uscito il decreto sulla regolarizzazione di colf, badanti e braccianti che ha troppi limiti anche se è un passetto avanti. Confidavamo in una regolarizzazione degli irregolari che sono 500-600mila: che senso ha tenerli così invisibili? Salvini dopo tanti proclami di cacciarli tutti in un anno e mezzo ne ha rimpatriati 2.500. Ci vorrebbero centinaia di anni per compiere la missione! Ma rimpatriarli è una fesseria: serve il beneplacito del Paese ospitante che non ha nessun interesse a riprenderseli.
E costa 7.000 euro a persona. La questione è stata strumentalizzata in maniera becera e stupida: i migranti sono una risorsa importantissima e il nostro intento è quello di crescere insieme».
Nella città violenta e generosa
«Durante il lockdown è stata la prima volta che ho visto i senzatetto affamati perché la città era diventata deserta e i ristoranti, bar, forni che davano loro da mangiare erano chiusi. E se per l’emergenza sanitaria del Coronavirus siamo entrati nella fase 4, per quella sociale siamo nella fase 0: la situazione è drammatica e i veri problemi devono ancora iniziare». Lo dice Debora Diodati, Presidente della Croce Rossa di Roma da 4 anni e volontaria da 15. Ho seguito per la prima volta una distribuzione di pasti e beni di prima necessità ai senza dimora, che a Roma sono circa 9.000, poco prima della fine del lockdown, che ho vissuto in totale solitudine in un quartiere dove effettivamente non era possibile fare un passo fuori dal brevissimo percorso portone-farmacia-tabaccaio-edicola-supermercato per la presenza massiccia e continua di forze dell’ordine. Era il primo maggio, e dalle 8 di sera all’una di notte gli unici umani che ho visto girando in lungo e largo per due Municipi erano i volontari delle Croce Rossa nelle loro divise da soccorritori rosso fiammante e i barboni che sbucavano da anfratti bui o venivano raggiunti in ripari nascosti. Mi sembravano i soli superstiti della catastrofe in una Roma distopica.
Alessandra Vallisneri è volontaria da 24 anni di cui 10 con la Croce Rossa. Le chiedo chi siano questi senzatetto che intravedo nella penombra e che a ragione raramente si lasciano fotografare. «A maggio nei Municipi II e III abbiamo assistito 180-190 persone senza dimora a settimana. Sono aumentate di poco. Ma ciò che chiamiamo il barbonismo domestico cioè le famiglie indigenti, sono passate da 200 a 635: persone che lavoravano in nero, o che si sono ritrovate a casa senza cassa integrazione né altro, o che dovevano tenere il negozio chiuso e continuare a pagare l’affitto e le bollette, e che si sono ritrovate senza i soldi per fare la spesa. Per strada c’è molta violenza, i clochard spesso solo alcolizzati o tossicodipendenti, molte donne vengono stuprate. In un sottopasso vicino una nostra sede un uomo è stato bruciato mentre dormiva. A Largo Passamonti», un camping del degrado con una fila di 21 roulotte nel parcheggio che costeggia le mura del cimitero del Verano, «una donna è andata in coma etilico ed è morta, Paolo se n’è andato per overdose dopo di suo fratello, che si era dato fuoco in un’altra roulotte a Portonaccio… la brutalità qui è fra di loro: non proviene dai romani, che sono più tolleranti dei cittadini del Nord. Io che sono di Bologna noto la differenza. Anche se la maggior parte è senza dimora per necessità, per alcuni vivere senza nessun vincolo sotto il cielo, il sole e le stelle è ancora una scelta. A Roma non ci sarebbe accoglienza per tutti, e tuttavia dei posti rimangono vuoti anche nelle giornate più fredde dell’anno perché alcuni barboni preferiscono le intemperie e la libertà agli orari o ai divieti di fumare, bere e assumere droghe».
«Per il Coronavirus siamo intervenuti fin dall’inizio sia per l’emergenza sanitaria – aumentando la raccolta sangue; mettendo a disposizione le nostre autoambulanze ad alto biocontenimento per il trasporto dei pazienti; misurando la temperatura dei passeggeri all’aeroporto di Fiumicino e alla stazione Termini – sia per quella sociale. Abbiamo aperto le nostre cucine d’emergenza per garantire i pasti caldi ai senza dimora; fornito informazioni sulla malattia e sulla sua prevenzione; trasformato in h24 i nostri centri d’accoglienza che prima erano aperti dalle 18 alle 8; attivato il numero verde 800.065510 per raccogliere le richieste di aiuto. In piena emergenza ricevevamo la media di 1.500 chiamate al giorno a livello nazionale e più o meno abbiamo assistito tutti. A Roma finora abbiamo sostenuto circa 4.000 famiglie con pacchi di viveri e beni di prima necessità. Il numero è ancora attivo perché l’emergenza sociale è solo all’inizio e sarà lunga e difficile».
In una situazione così drammatica ci sono 2 buone notizie. La prima è la grande solidarietà. «Gli italiani nelle situazioni d’emergenza ci sommergono di donazioni. E c’è stata una risposta talmente enorme alla nostra campagna nazionale per il volontariato temporaneo che non abbiamo potuto accettare tutte le offerte d’aiuto», dice Debora Diodati. Alessandra Vallisneri aggiunge: «Roma è molto solidale. Prima del Covid tanti negozianti offrivano la colazione ai senzatetto e mettevano a loro disposizione i bagni prima di aprire al pubblico. Durante l’emergenza, grazie alle spese lasciate nei supermercati, alle donazioni dei privati, panifici, supermercati eccetera, siamo riusciti e stiamo riuscendo a soddisfare le esigenze primarie dei nostri assistiti. Riscontriamo più generosità nei quartieri popolari che in quelli altolocati». La seconda buona notizia è che alla mia domanda «Quanti barboni si sono ammalati di Coronavirus a Roma?» la Presidente Diodati ha risposto: “Nessuno”.
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