Voli di guerra dal Dodecaneso, una storia antica
La guerra lunga un secolo Già nel 1940 e durante il secondo conflitto mondiale, dalle basi di Rodi e di Lero nell’Egeo si levarono i trimotori da bombardamento diretti a colpire le città portuali della «Palestina mandataria»
La guerra lunga un secolo Già nel 1940 e durante il secondo conflitto mondiale, dalle basi di Rodi e di Lero nell’Egeo si levarono i trimotori da bombardamento diretti a colpire le città portuali della «Palestina mandataria»
I tentativi di colpire Tel Aviv dal cielo, con lancio di missili nella crisi in corso dallo scorso ottobre, potrebbero far pensare che siano d’attribuire soltanto alla mai conclusa condizione conflittuale fra ebrei e arabi che si sussegue a intermittenza da ben 75 anni, quanti ne sono passati dacché esiste lo stato d’Israele. Invece non è così. I primi attacchi dall’aria su Tel Aviv (città recente, fondata poco più di 110 anni fa) risalgono alla Seconda guerra mondiale e non certo per mano di combattenti dei paesi dell’area mediorientale. Sorprenderà forse, se ricordiamo, che a portarli a compimento furono le forze armate italiane con l’allora regia aeronautica. Accadeva che dalle basi di Rodi e di Lero nell’Egeo, possedimenti d’oltremare in quel periodo, si levassero i trimotori da bombardamento diretti a colpire le città portuali della «Palestina mandataria».
Con tale espressione s’intendeva un’istituzione, riconosciuta dalle potenze europee, che consentì alla Gran Bretagna, all’indomani del dissolvimento dell’impero ottomano uscito sconfitto dalla Prima guerra mondiale, di poter governare nella regione storico-geografica della Palestina fino al 1948, anno di proclamazione dello stato ebraico d’Israele. I centri costieri palestinesi avevano un certo peso strategico e perciò furono oggetto di bombardamenti, specialmente nel primo anno di guerra: Tel Aviv, Giaffa, ma soprattutto il primario porto della città di Haifa nel nord della Palestina.
In quest’ultima si elevavano, fra le strutture portuali, le raffinerie di petrolio e i depositi di carburante, essenziali per il prosieguo delle operazioni militari delle truppe britanniche (contrapposte a quelle dell’Asse) nelle sconfinate regioni desertiche del nord Africa.
Dagli aeroporti di Rodi, tra le varie missioni, decollò nell’autunno 1940 una squadriglia di quattro Savoia-Marchetti per compiere nello scacchiere del Medio Oriente quello che si rivelò un volo da primato. Un primato dal punto di vista tecnico (e sportivo, aggiungeremmo, se così può ancora definirsi un raid aereo in tempo di guerra), più che militare.
Manama, la città più popolosa delle isolette del Bahrein nel Golfo Persico (anche queste sotto protettorato britannico), rappresentava un obiettivo ghiotto da colpire: possedeva giacimenti petroliferi, da poco scoperti, indubbiamente preziosi più delle armi e più dei soldati. I comandi aeronautici italiani pianificarono un attacco che a missione compiuta, però, non sortì granché: scoppiarono incendi, ma i danni procurati agli impianti di petrolio risultarono limitati. Il raid tuttavia ebbe risonanza come azione dimostrativa e propagandistica. E, in fondo, quello contava, poiché era funzionale alle aspettative del regime fascista in Italia. Sorvolando Cipro, Libano, Siria, Arabia Saudita, Golfo Persico, ancora Arabia, Mar Rosso, atterrando infine in Eritrea (colonia dell’Africa Orientale), si percorsero più di 4000 chilometri in volo. Nessun altra aviazione dei paesi belligeranti coprì distanze maggiori in una missione senza scalo nei teatri di guerra d’Europa, Africa e del Medio Oriente.
Ma torniamo alle città portuali della Palestina mandataria, bagnate dal Mediterraneo, che fino alla tarda primavera del ’41 subirono ripetute incursioni aeree. Di queste, la più devastante si registrò nel settembre 1940. Dalle isole del Dodecaneso decollarono una decina di aerei trimotori. Si trattava del tipo denominato «Alcione», ritenuto il più efficace bombardiere medio prodotto dall’industria bellica nazionale. Obiettivo della missione, al solito, la possibilità di arrecare danni alle raffinerie petrolifere nel porto di Haifa. Giunti in prossimità della costa palestinese gli assalitori si resero conto di correre un rischio: sarebbero stati intercettati da aerei inglesi che sorvolavano con circospezione la città.
Mancando di copertura aerea da caccia della propria aviazione, l’obiettivo della formazione italiana poteva considerarsi già fallito. Senonché c’era pronto un piano di ripiego: puntando a sud si sarebbe attaccato il porto di Tel Aviv. La caccia inglese, in allarme sui cieli costieri, volteggiava anche su quelli di Tel Aviv: i porti erano i primi a essere considerati obiettivi sensibili. Si doveva tornare indietro, insomma. Ma prima bisognava scaricare le bombe, assolutamente.
Per un aereo da bombardamento (così come per un aerosilurante) era impensabile rientrare alle basi scendendo sulla pista con la carlinga carica di ordigni esplosivi. I trimotori provarono a sganciare nello specchio di mare portuale. Nella foga, e nel panico, per sfuggire ai caccia, il puntamento risultò errato e le bombe finirono per centrare un popoloso quartiere residenziale, nei dintorni del porto. Le conseguenze furono rovinose: palazzi sventrati, case rase al suolo e un elevato numero di abitanti, ebrei e palestinesi accomunati in un unico destino, rimasti uccisi. Se ne contarono circa 140, fra i quali numerosi bambini.
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