Sarà l’Unione a europeizzare l’Ungheria o Orbán a ungherizzare l’Europa? La risposta si vedrà strada facendo, la domanda è sempre più impellente.

DAL PRIMO LUGLIO il capo del governo di Budapest ha in mano la presidenza semestrale del consiglio dell’Ue e sembra volerla utilizzare per giocare una partita tutta sua. Appena tre settimane prima, le elezioni del parlamento di Strasburgo avevano registrato una netta avanzata delle estreme destre. Sia quelle considerate presentabili, come i Conservatori di Meloni, sia le altre, dai Patrioti di Orbán e Salvini fino all’Europa delle nazioni sovrane, gruppo nato dai tedeschi di Alternative für Deutschland.

Per questo è importante approfondire quanto successo negli ultimi anni nell’Europa dell’est: è in particolare in Ungheria e Polonia che è stato definito il modello di riferimento per le forze reazionarie del Vecchio Continente. Strette tra la pulsione a forzare gli ordinamenti delle democrazie liberali e i vincoli imposti di volta in volta dall’Unione europea, per la verità più sul terreno economico che dello stato di diritto.

Un libro che racconta questo pezzo di storia si chiama La protesta è l’anima, (Fondazione Feltrinelli editore, pp. 176, euro 17) scritto da Massimo Congiu, giornalista e collaboratore, tra gli altri, del manifesto.

Il punto di osservazione come dice il titolo, non è il governo, ma le mobilitazioni. A volte poco conosciute all’estero, spesso mal raccontante, hanno accompagnato (o meglio, contrastato) i diversi progetti di riforma che segnano la vita recente nei due paesi dell’Europa orientale. Riforme che insistono sempre sugli stessi terreni: scuola, stampa, magistratura, corpo delle donne, diritti Lgbt+.

NON SFUGGIRÀ che si tratta delle stesse questioni che animano il dibattito politico italiano e le tensioni tra governo nazionale e istituzioni comunitarie da quando la premier Giorgia Meloni si è insediata a Palazzo Chigi. Non è un caso, è un indizio.

Congiu mostra come tra Ungheria e Polonia le risposte della società civile non siano mancate, semmai abbiano avuto il limite di non riuscire a dare vita a infrastrutture stabili e portare a casa risultati tangibili. La rassegna di questa costellazione multiforme è puntuale, sebbene ci si sarebbe attesi un maggiore spazio per le voci dei protagonisti individuali e collettivi delle diverse battaglie.

Altro capitolo sono le reazioni al dissenso da parte delle democrature. Un esempio di particolare violenza lo ha vissuto per un anno e mezzo Ilaria Salis: prima nel buio del carcere di Budapest, poi davanti ai flash che l’hanno ritratta in ceppi in tribunale, durante un processo penale con pochissime delle tradizionali garanzie riconosciute dai paesi europei. Il caso ha fatto molto più scandalo in Italia che in Ungheria e non è per nulla concluso.

SALIS È POTUTA TORNARE in libertà il 14 giugno solo grazie all’immunità dell’elezione a europarlamentare. Pochi giorni dopo l’antifascista tedesca Maja T. è stata estradata da Dresda a Budapest, nell’ambito dello stesso procedimento e in violazione di un ordine della Corte costituzionale federale di Karlsruhe. Rischia di affrontare le stesse vessazioni detentive e processuali. Anche da un caso come questo si vedrà se sta vincendo Orbán o quello che all’Unione piace dire di sé.