Vocalese, la missione possibile di un metalinguaggio sonoro
Fenomeni/Uno stile canoro afroamericano, in cui le parole vengono adattate ad assoli strumentali preesistenti. In occasione dei cento anni dalla nascita di Jon Hendricks, uno dei grandi geni della voce, ecco una guida ai dischi imperdibili Molti artisti hanno flirtato con il genere, da Mark Murphy a Joni Mitchell. Il caso Manhattan Transfer
Fenomeni/Uno stile canoro afroamericano, in cui le parole vengono adattate ad assoli strumentali preesistenti. In occasione dei cento anni dalla nascita di Jon Hendricks, uno dei grandi geni della voce, ecco una guida ai dischi imperdibili Molti artisti hanno flirtato con il genere, da Mark Murphy a Joni Mitchell. Il caso Manhattan Transfer
Se c’è uno stile che resta esclusivamente jazzistico, quasi autoreferenziale nella propria identità, questo non può essere che il vocalese, a simboleggiare la quintessenza del «jazz nel jazz», ossia un approccio metalinguistico alla forma sonora originaria. Detto così, suona magari astruso, ma in parole povere, il vocalese non fa che trascrivere un assolo strumentistico e poi cantarlo, aggiungendo le liriche, in cui vocali e dittonghi riescono a combaciare perfettamente con ogni nota musicale; in questa tecnica letteraria Hendricks risulta un maestro insuperato, perché, cosciente del possesso di un ricco bagaglio letterario, inventa testi surreali e (auto)-ironici di così straordinaria complessa fantasia, da meritarsi l’epiteto di «poeta ufficiale del jazz» da parte dell’insigne enciclopedista Leonard Feather o di «James Joyce del jive» (sinonimo di swing e per estensione di jazz) sulla rivista Time Magazine.
Tuttavia il vocalese non si limita a Hendricks e al trio LH&R, che pur vanta, tra i propri estimatori, musicisti eterogenei e versatili come Van Morrison, Al Jarreau, Bobby McFerrin, George Fame (che di Jon reinterpreta Yeh-Yeh, facendone una hit pop rock) e persino i Grateful Dead, i quali, al debutto con questo nome, nel marzo 1967, registrano, assieme al vocalist, il suo Fire in the City, divenuto ben presto un inno contro la guerra in Vietnam. Il vocalese, culturalmente parlando, è anche un «prima» e un «dopo» Hendricks. «Prima» significa risalire alle origini del jazz, quando Louis Armstrong con lo scat apre il canto all’improvvisazione fino alla modernità postbellica quando Leo Watson e Babs Gonzales – e prima di loro Billy Eckstine – tentano di riprodurre con la voce il dinamismo strumentale di Charlie Parker e Dizzy Gillespie.
«Dopo» significa anni Ottanta, quando si torna a parlare in genere di canto jazz precedente le intonazioni free, rock, soul, r’n’b, riscoprendo diversi stili melodici, dal croonismo alla torch song, con il vocalese che occupa un ruolo non certo secondario, nonostante la risicata quantità, anche per via degli indubbi ostacoli tecnico-espressivi da affrontare in sede creativa, interpretativa, realizzativa. Questi 14 album, presentati in ordine cronologico, senza nulla togliere ai lavori dei vari Bob Dorough, Emile-Claire Barlow, George Benson, Al Jarreau, Andy Bey, Giacomo Gates, Roger Miller, Kurt Elling, Kevin Mohagony, Susana Raya o dei gruppi The Singers Unlimited, New York Voices, restano comunque un referente significativo in circa 70 anni di storia jazzistica.
King Pleasure, King Pleasure Sings (Prestige, 1954)
Una raccolta di otto brani incisi tra il 1952 il 1954 da quello che può essere considerato il primo artista vocalese; maestro e mentore dello stesso Jon Hendricks, tra le sue primissime incisioni, nel febbraio 1952, c’è quella Moody Mood for Love ricalcata su un assolo del sassofonista James Moody, alla base di tutto il movimento vocalese, e rimasta ancor oggi banco di prova per ogni cantante jazz.
LH&R Trio, Sing along with Basie (Roulette, 1958)
Dopo il travolgente exploit di Sing a Song of Basie, dove i tre vengono accompagnati da un piano jazz quartet, ora è il Conte, diretto interessato, a presentarsi al loro cospetto con la propria orchestrona: il pezzo forte resta Going to Chicago Blues dove LH&R ricreano il sound della big band, mentre Joe Williams interpreta al meglio il ruolo di cantante affiliato.
Mark Murphy, Rah (Riverside, 1961)
Il rappresentante talvolta inquieto del lato hip e bianco nello stile vocalese, con 51 album pubblicati dal 1956 al 2015 (più due post mortem) nel sesto lp ufficiale rende omaggio ai capolavori della storia del jazz moderno, includendo una versione di My Favorite Things prontamente censurata dall’autore originario Richard Rodgers che lo accusa di sfottere il collega Ernie Wilkins in un verso.
Les Double Six, Dizzy Gillespie and The Double Six of Paris (Philips, 1963)
Il mitico trombettista è al servizio del gruppo capitanato da Mimi Perrin, assieme a numerosi sodali del bebop (Bud Powell, Kenny Clarke, James Moody): ed è un’esplosione di reciproci virtuosismi alla prese con dodici brani del repertorio gillespiano meglio collaudato; in più, come da copione, i sei Double Six cantano rigorosamente in lingua francese.
Les Swingle Singers, Sinfonia: Luciano Berio Conducting The New York Philharmonic and Swingle Singers (Cbs, 1968)
Celebrati e amatissimi negli Stati Uniti più che in Europa, fin dall’esordio discografico con Jazz Sébastien Bach (1963), l’ottetto vocalico fondato a Parigi dall’americano Ward Swingle attira l’attenzione del compositore di neoavanguardia Luciano Berio, che ne utilizza la tecnica (più che lo stile) vocalese in una partitura sperimentale.
Pointer Sisters, That’s a Plenty (Blue Thumb, 1974)
Le quattro sorelle sono di fatto un vocal group oscillante tra r’n’b, soul, funky, ma per questo secondo dei venti album ufficiali, si dedicano principalmente al vocalese (oltre al recupero del blues e dello swing), mostrando di sapercela fare anche alle prese con brani ultra-virtuosistici come Salt Peanuts di Dizzy Gillespie.
Eddie Jefferson, Still on the Planet (Inner City, 1976)
È il capolavoro, dopo il ritorno sulle scene durante gli anni Settanta, per lui discograficamente molto prolifici, anche grazie al sodalizio con il sax alto Ritchie Cole (i due sono spesso ospiti l’uno dell’altro). Il vocalese arricchito di improvvisazioni scat trova nel pezzo finale Chameleon di Herbie Hancock un’apoteosi di funambolico virtuosismo.
Joni Mitchell, Mingus (Asylum, 1979)
La folksinger canadese avrebbe voluto registrare un disco assieme a Charles Mingus, ma il contrabbassista ormai molto malato declina l’invito. Ne fuoriesce quindi un progetto dove la bionda cantante/chitarrista scrive e interpreta quattro liriche su altrettanti capolavori mingusiani (Goodbye Pork Pie Hat su tutti), in compagna di grandi solisti.
George Fame, Annie Ross, Hoagy Carmichael, In Hoagland (Baldeagle, 1981)
Omaggio tutto britannico al grande songwriter Hoagy Carmichael (presente come jazz singer e pianista) pochi mesi prima della scomparsa: pur non essendo un album totalmente vocalese, vede però assieme i maggiori esponenti della scuola inglese, ben coadiuvati da una piccola orchestra, che non fa rimpiangere le altre versioni di Stardust o di Georgia on My Mind.
Manhattan Trasfer, Mecca for Moderns (Atlantic, 1981)
A parte il citatissimo Vocalese (1985) prodotto da Jon Hendricks, merita più di un ascolto questo quinto album del noto quartetto, per due valide ragioni: da un lato esterna abilmente il patchwork artistico dei quattro, dall’altro presenta una straordinaria Confirmation di Charlie Parker nella vocalizzazione di Eddie Jefferson.
Jon Hendricks and The All-Stars, Boppin’ at the Blue Note (Telarc, 1995)
In compagnia delle tre figlie e con una pletora di ospiti (front line con Marsalis, Golson, Holloway, Grey) il cantante celebra la propria storia riadattando e riarrangiando un repertorio di circa quarant’anni, dove spiccano le quattro melodie di Basie dal songbook di LH&R, qui cantate assieme ad Aria, Judith, Michele e a Kevin Burke.
Anita Wandell, Noted (Specific Jazz, 2006)
Attiva tra Inghilterra e Australia, premiata dalla Bbc quale miglior jazz singer poco prima di questo disco, la ragazza conferma le raffinate doti istrioniche, soprattutto nell’improvvisazione scat, pur riservando al vocalese notevole spazio come in una superba versione del classico Moanin’ dei Jazz Messengers di Art Blakey, in cui ricalca l’assolo di Lee Morgan.
Angelica Matveeva, Vocalese (Cham 2015)
Cantante russa, oggi in Norvegia in pianta stabile, dopo un concept album sulla poesia svedese e uno sul cabaret parigino, ecco il personale tributo, con l’aiuto di jazzmen finnici, ai grandi del recente passato vocalese da Joni Mitchell ai Double Six, da Jefferson a Hendricks, non senza le proprie liriche ad esempio su Yes or No di Wayne Shorter.
Camille Bertault, Pas de géant (Okeh, 2018)
Nel secondo dei tre album finora pubblicati dalla cantautrice parigina, che nel titolo contiene la traduzione letterale del celeberrimo original di John Coltrane, in mezzo a 16 brani variegati, spicca Là où tu vas, appunto Giant Steps trasformato in prodigioso manifesto di canto libero. Interessante anche il successivo cd Le tigre (2020) dove Camille coniuga il vocalese all’elettronica.
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