Alla presenza che le campane veneziane hanno nella musica contemporanea – si pensi a Sofferte onde serene di Nono, del ‘76-77 – bisogna adesso aggiungere Glockenbuch IV di Marcus Schmickler. Classe 1968, folgorato dalla musica di Stockhausen, studi di composizione ed elettronica, ma anche militanza in collettivi di elettronica non accademica e, con lo pseudonimo Pluramon, un pionieristico album di post-rock interamente prodotto digitalmente, Schmikler ha scoperto l’esistenza di un Libro delle campane della città di Colonia, tomo di 900 pagine con specifiche delle 700 campane delle 200 chiese della sua città, e alle campane ha preso gusto. Da qui la commissione della Biennale Musica 2023; a Venezia lo ha accolto la chiesa dei Carmini, col suo bel campanile: Schmickler ha registrato, analizzato e sintetizzato i suoni. Per Schmickler le campane sono uno dei più antichi sistemi di comunicazione di massa, e Venezia è in questo emblematica: una dei risvolti del lavoro è il sostegno alla tutela degli ambienti acustici tradizionali, a rischio per cambiamenti e over-turismo.

MA NON SI PENSI che la sua lettura delle campane sia naturalistica, tanto meno idilliaca o consolatoria. Schmickler dice che di solito le campane hanno un effetto calmante, ma non è certo quello che cerca con la sua performance. Al centro di uno degli spazi delle Tese, all’Arsenale, con intorno il pubblico seduto e un perimetro di circa 25 amplificatori appesi in alto, e fasci di luce bianca che indagatori «spazzano» la platea, Schmickler col suo personal orchestra un paesaggio elettronico – volume non fortissimo ma suono molto avvolgente – da cui emergono rintocchi e persino campane a distesa e a festa, ma tutto mischiato in un mobile scenario di tuoni, rimbombi, scariche, rumori da acciaieria, e anche qualche sequenza elettronica di tipo ritmico: paesaggio per lo più non concitato, ma di forte temperatura emotiva, per non dire del senso di suspence un po’ inquietante e ansiogeno, quasi minaccioso. Di grande carattere nell’assortimento, scansione, spazializzazione dei suoni, Glockenbuch IV è un’esperienza di ascolto davvero – per usare un termine di moda – «immersiva», e certo non all’acqua di rose: fin qui il punto più alto di questa Biennale Musica.

TRA GLI ASPETTI più stimolanti di questa edizione consacrata all’elettronica c’è che spesso non è facile capire come «funziona» la musica che si ascolta, così come le sue implicazioni, e ne nascono molte domande: molte, e a tanti livelli, quelle poste durante una tavola rotonda a Guy Ben-Ary e Nathan Thompson, due degli artisti/ricercatori che hanno presentato Music for surrogate performer. Nel ‘65 Alvin Lucier, grande e avventuroso compositore americano, propose Music for solo performer, attivando un set di percussioni attraverso le proprie onde cerebrali: una pietra miliare della musica sperimentale. Ben-Ary e gli altri negli anni scorsi hanno collaborato intensamente su nuovi progetti con Lucier, il quale, sul finale della vita, ha donato un campione del suo sangue perché ne venissero ricavate reti neuronali: collocati all’interno di una macchina fantascientifica, alla Biennale i neuroni di Lucier, mancato novantenne nel 2021, hanno fatto suonare un set di percussioni analogo a quello del ‘65.
Un modo per Ben-Ary di «immortalizzare», non senza forte coinvolgimento emotivo, Lucier, ma anche di indicare orizzonti per i quali non esiste ancora un quadro etico e filosofico, e nemmeno, letteralmente, un vocabolario: come chiamiamo l’«entità», che non è un cervello ma ha delle facoltà, che ha «suonato» alla Sala delle Colonne?