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Vladislav Vanchura, un pastiche neobarocco per beffarsi del nuovo

Vladislav Vanchura, un pastiche neobarocco per beffarsi del nuovoJosef Čapek, «Natura morta cubista».

Classici Tramite la potente macchina metaforica del suo grandioso romanzo, «La fine dei vecchi tempi», l'autore ceco sbeffeggia il mondo a venire: siamo nel 1934, sull’orlo del baratro

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 1 dicembre 2019

«Voi volete ascoltare una narrazione elegante, e ben sapete cosa ad essa si confà, e insistete affinché – nello stormire del vento – io mi ponga a disegnare un racconto che si snodi simile a un ruscello…. Volete vedere il luccichio del suo fluire e l’incresparsi delle vicende attraverso le quali il tempo ci concede di sfogarci con le parole o di tacere. Volete seguire un’onda dopo l’altra e un avvenimento dopo l’altro, nell’ordine prestabilito e assegnato… ma questa mia narrazione muta spesso tempo, spesso luogo, e procede saltando di palo in frasca. – Nondimeno permettetemi ancora un breve istante affinché, in sella alla mia selvaggia possessione, io possa incrociare qui e là, tutte in una volta captandole, le paroline dette dalle diverse persone».

Affiora gradualmente, il continente in cui si muove da sovrano lo scrittore ceco Vladislav Vanchura. La sua è una dichiarazione di poetica, e più in generale di estetica, che prende le distanze da ogni neoromanticismo, da ogni realismo ottocentesco, da qualsiasi letteratura ‘strapaesana’, ovvero della «Heimat». La fine dei vecchi tempi, magistralmente tradotto, per la prima volta, da Giuseppe Dierna, autore anche di una preziosa e indispensabile introduzione (in uscita il 3 dicembre da Einaudi, pp. L+340, € 22,00) ne mostra lo spirito neobarocco, che oltrepassa gli albori della poetica proletaria per aprirsi a quella travolgente stagione del poetismo, o per dirla con gli autori cechi dell’epoca, al Devetsil, fondato, voluto, realizzato da Karel Teige.

Dagli arcaismi al parlato
Parola strana, quasi intraducibile, incomprensibile da noi: Devetsil: farfaraccio (petasites officinalis), insomma una pianta, un fiore che sboccia al primo disgelo, messaggero della nuova stagione: ma sì, della rossa primavera. Questi autori, che si autodefinivano «i Testardi», erano impegnati nel grande progetto di costruire uno Stato libero e sociale, se non socialista. Si riunivano nei mitici caffè praghesi – lo Slavia, l’Union, il National, il Dancing u Machácku – mentre al Caffè Arco s’incontravano gli autori ebreo-tedeschi intorno a Max Brod e al riservatissimo, ironico dr. Franz Kafka. Il Caffè era il quartier generale di questa generazione di scrittori cechi subito dopo il 1918, quando era stato – dopo secoli – rifondato lo Stato cecoslovacco.

Vítezslav Nezwal cantava in un lungo poema in prosa: «poi sediamo tutti giorno per giorno nel bar / si parla di vlasdislav vanchura che viene assai di rado / roman jakobson ci fa segno dall’ambasciata…».
Veniva di rado, certo, Vladislav Vanchura, perché viveva fuori Praga, dove esercitava con la moglie la professione di medico – come Benn e Döblin a Berlino. Ma fuori dall’ambulatorio, scriveva, scriveva, scriveva. Cominciò nel ’24, con un romanzo ‘proletario’, molto strappacuore, Il fornaio Jan Marhoul, ma già l’anno seguente pubblicava uno dei racconti più aspri, arditi e satirici sulla Grande Guerra, Campi di grano e di battaglia, in cui l’impegno politico, socialista oltrepassa la scrittura naturalistica. Il cantiere di Vanchura, sempre più attento allo sperimentalismo poetico, era aperto.

La frequentazione con gli esponenti del Circolo Linguistico di Praga, i russi Jan Mukarovskí e Roman Jakobson, rifugiatisi nella città boema, si percepisce nel gioco dei proverbi e degli arcaismi, nel recupero del parlato e delle stravaganze linguistiche, riciclate in accezioni imprevedibili, indispensabili per comunicare, senza retorica, senza sentimentalismo, il crollo grottesco del vecchio regime, del plurisecolare Impero asburgico.

Non c’erano solo Karl Kraus con Gli ultimi Giorni dell’umanità o Robert Musil con l’Uomo senza qualità, insomma; del resto già Jaroslav Hašek con l’epopea indimenticabile del Buon soldato Sc’vèik aveva assestato a sorpresa un colpo irreversibile al patriottismo imperial-regio e al militarismo asburgico, segnando profondamente l’identità della letteratura ceca, appena (ri)nata con l’inconfondibile connotato dell’umorismo, della parodia e della satira. Era, quella letteratura, la zattera che aiutò gli intellettuali cechi a superare le tempeste e i terremoti del Novecento. E non a caso Milan Kundera si sarebbe laureato con una dissertazione su Vančura, cui dedicò il suo primo romanzo. Gli elementi comuni della parodia e della metafora sono ingredienti decisivi della scrittura di Vanchura. Tout se tient.

Intanto, l’eco della Rivoluzione Russa si era diradato e, dopo la delusione, all’impegno politico era subentrata una sobrietà intellettuale dettata dalla consapevolezza che lunga sarebbe stata la via per la liberazione sociale. Inoltre, si affacciava sempre più prepotentemente lo spettro dello stalinismo, sicché Vanchura ruppe da sinistra col partito comunista, firmando, nel ’29, il «manifesto dei sette» – segnale forte della dissidenza – rimanendo, tuttavia, nella Levá fronta, nel «fronte di sinistra» dei militanti per la libertà sociale e per l’indipendenza nazionale, minacciata dalla potente minoranza germanofona.

Erano gli anni in cui si consumava la sua maturità intellettuale, in cui provò l’ebbrezza del bestseller con Un’estate capricciosa, del ’26, ispirato al sodalizio con Josef Capek. La costruzione della nuova, bianchissima villa funzionalista, disegnata da Jaromir Krejacar, che aveva sposato Milena Jesenská (la Milena di Kafka e delle sue stupende lettere, ora ritradotte da Giuntina e recensite il 17 novembre da Luca Crescenzi su queste pagine) sembra tradurre in architettura la leggerezza creativa di Vanchura.

Stessa tristezza e ironia
Nel ’31, uno spunto della sua storia familiare gli dettò quello strano romanzo ‘medievale’ che è Il cavaliere bandito e la sposa del cielo (Adelphi), dedicato al cugino, anche lui scrittore, Jirí Mahen, che si suicidò pochi giorni dopo l’invasione nazista della Cecoslovacchia. Con la sua rete di interessi, interventi, contatti, Vladislav Vanchura è dunque figura centrale della letteratura ceca tra le due guerre, il periodo più significativo, come testimoniano i saggi di Angelo Maria Ripellino, che con Praga Magica scrive una delle opere più stupefacenti della nostra critica letteraria, ancora oggi una guida formidabile alla letteratura ceca, cuore della stagione dell’avanguardia: la più duratura, coinvolgente e insieme la più creativa.

All’origine del grandioso romanzo di Vanchura, La fine dei vecchi tempi, del ’34, c’è la sceneggiatura di un film, poi abbandonata; in filigrana si percepisce la sottile tramatura cinematografica, che rende così attuale, moderno questo pastiche neobarocco, fondamentalmente anti-minimalista, che ha innumerevoli riferimenti con la storia e la tradizione letteraria europea.

Il Castello di Kratochvíle, luogo del romanzo, richiama un altro Castello, quello dell’omonimo romanzo kafkiano: tutt’altra l’atmosfera, eppure il paesaggio, le osterie, lo sfaldamento delle psicologie, la malinconia e la parodia, esibiscono profonde affinità. Cambia la lingua, resta la stessa terra, la stessa nebbia, la stessa tristezza e ironia.

Certo, la secchezza kafkiana cede all’effusione linguistica del narratore Bernard Spera, che racconta le avventure del protagonista, a sua volta una reincarnazione del famoso Baron Münchhausen.
Vanchura trasforma elegantemente il nome del suo narratore settecentesco, Rudolf Erich Raspe, come scopre genialmente Dierna, nell’anagramma Spera: nel romanzo è un povero bibliotecario, un po’ inerme, un po’ malandrino che, con l’improbabile prospettiva di arricchirsi, narra il suo racconto sulla «fine dei vecchi tempi».

I vecchi tempi sono una variante dell’ancien régime; il romanzo parte, infatti, dal 1920 con il crollo dell’Impero e la fondazione della nuova repubblica. Siamo lontani da Praga, in un latifondo, il cui proprietario, duca Prukazskí, è fuggito, temendo il peggio, in Tirolo, terra da sempre molto conservativa. La proprietà ha un reggente, il facoltoso borghese, Josef Stoklasa, che mira a impossessarsene definitivamente. Nel gioco di specchi tra la nuova classe borghese, avida e spocchiosa, e le decrepite figure dell’aristocrazia, esemplificate dal bibliotecario, si insinua il vero protagonista, emanazione di tutti i picari della letteratura, da Lazarillo de Tormes, a Simplicissimus, da Gil Blas fino a Tristram Shandy, con una surreale apertura a Münchhausen e a Casanova, simpatici truffatori, bugiardi, avventurieri senza scrupolo né morale, ma senza malignità.

Si chiama Alexander Nikolaevic Megalrogov, ed è un sedicente principe russo, nonché presunto colonnello dello zar Nicola II, a suo dire valoroso combattente nelle truppe bianche del Generale Vrangel’. Grande spaccone e infaticabile donnaiolo, Megalrogov fa innamorare tutte le donne del romanzo, dalle dame alle servette, ma travolge e incanta anche gli altri personaggi, in primis il nostro bibliotecario, stralunato demiurgo narrante, che vede nel principe un salvatore e insieme un impostore. Soprattutto, un genio della disinvoltura, insomma un uomo di altri tempi: dei vecchi tempi, irriducibile alla società utilitaristica borghese, un protagonista immutabile.

Tutta la tradizione del romanzo ottocentesco di formazione viene derisa, negata, sommersa, parodiata dalla vitalità del Colonello, che non si sa se sia mai stato tale davvero, anche se viaggia con una pergamena – autentica o falsa, chissà – sigillata da sacri timbri. Megalrogov è una cometa che appare, occupa il firmamento e scompare senza lasciare tracce apparenti.

Si trasforma in quello che già era: un Wanderer, un poutnik, un senza patria, né meta, mera forza della natura che con la sua indomabile energia fisica e psichica supera il contrasto verità-menzogna, oltrepassando come la folgore, come un fenomeno naturale, ogni abisso nichilistico, ogni schematismo razionalistico e ogni calcolo borghese: senza nostalgia e senza speranza.

Per Vanchura, il Colonello è una potente macchina metaforica, e l’intero suo racconto è un tripudio, un trionfo, una festa delle metafore. Tramite questa invenzione, lo scrittore si trasforma nel sublime sbeffeggiatore dei ‘nuovi tempi’: siamo nel 1934, già sull’orlo del baratro che avrebbe inghiottito tutto e tutti.
Nel marzo del ’38 Hitler è a Vienna. Il 15 marzo ’39 le truppe tedesche occupano Praga; Vanchura è attivo nella Resistenza; il 12 maggio ’42 viene arrestato dalla Gestapo; un gruppo di partigiani uccide Reinhard Heydrich, il numero due delle SS, il Gauleiter della Boemia. Per rappresaglia i nazisti eliminano duemila prigionieri politici, tra cui Vanchura. È il primo giugno. Fine dei vecchi tempi. E i nuovi tardano a venire.

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