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Vizi al culmine, il moralista Giovenale è arrabbiato

Vizi al culmine, il moralista Giovenale è arrabbiatoThe fate of Scholars, incisione (secondo stato) di Wenceslas Hollar (Praga 1607 - Londra 1677), per le Satire di Giovenale

Classici latini Rispetto a Seneca, da cui fu influenzato, Giovenale (I-II secolo) era convinto che la società romana non potesse progredire oltre nel male: una nuova edizione delle Satire da Rusconi Libri

Pubblicato più di un anno faEdizione del 25 giugno 2023

Negli ultimi anni della sua vita, tra il 56 e il 65 dopo Cristo, nel pieno rigoglio della stravaganza e della crudeltà del principato di Nerone, Seneca elaborò, anche sulla base di fonti filosofiche greche ora perdute, una teoria dello sviluppo morale del genere umano radicalmente pessimistica. I primi uomini, nati dalla terra quasi come funghi per un processo biologico governato da una forza divina, sarebbero stati innocenti per un brevissimo lasso di tempo, perché molto rapidamente la nequitia, ossia l’inclinazione al male e al vizio, si sarebbe insinuata nel loro animo (Naturales Quaestiones, 3, 30, 8). Da quel remotissimo momento – l’istante della degenerazione primordiale – la storia sarebbe stata dominata dalla malvagità, una malvagità sempre uguale, nella sua essenza, in ogni fase della lunga vicenda del genere umano (Epistulae morales, 97, 1). Secondo Seneca (De Beneficiis, 1, 10, 1 ss.), noi uomini «siamo malvagi, fummo malvagi, saremo malvagi»: la nostra condizione, dopo l’effimera innocenza dei primordi, non è mai mutata e non cambierà mai, se non per il fatto che i singoli vizi (manifestazioni contingenti di un male onnipervasivo e monolitico) sperimentano periodicamente, come le maree, flussi e riflussi: in alcune epoche è la lussuria a prevalere, in altre la gola, in altre ancora la crudeltà e il sadismo. Quanto al bene, Seneca lo giudicava inevitabilmente destinato a soccombere di fronte a vizi che ai suoi occhi erano ancora in processu (Naturales Quaestiones, 7, 31 s.), perché si stavano acuendo e raffinando grazie agli strumenti che il progresso materiale e intellettuale della società romana metteva a loro disposizione.
Queste idee ebbero – per così dire – successo. Le fece proprie, un secolo dopo, l’imperatore filosofo Marco Aurelio, che con laconicità raggelante, che può ricordare l’Ecclesiaste, scrisse (A se stesso, 7, 1): «Che cosa è la malvagità? Ciò che spesso hai visto (…). Dovunque ti volga, da una parte all’altra troverai sempre le stesse cose, di cui sono piene le storie dei tempi antichi e quelle del passato più o meno recente, di cui sono ora piene le città e le case. Nulla di nuovo: tutto familiare ed effimero». E le fece proprie anche un uomo che Marziale, in un epigramma databile al 101-102 (12, 18, 1 ss.), ci descrive come aduso a vagare inquieto per la Suburra e a salire affannosamente sulle alture del Celio per rendere omaggio ai ricchi e ai potenti. Questo individuo, evidentemente a corto di mezzi e bisognoso di sostegno economico, e quindi socialmente lontanissimo sia da Marco Aurelio sia dal ricco e influente Seneca, era Giovenale, l’ultimo dei poeti satirici latini (dopo Lucilio, Orazio e Persio), nato verisimilmente ad Aquino intorno al 60, ossia proprio negli anni in cui la terribile teoria antropologica di Seneca prendeva forma.
Chiaramente influenzato da Seneca, Giovenale – a quanto emerge dai suoi versi, unica fonte del suo pensiero e della sua vita interiore – riteneva la storia umana dominata dal vizio e, dal punto di vista morale, sostanzialmente sempre uguale a se stessa (Satira 1, 81 ss.). Anche per Giovenale l’uomo sarebbe stato virtuoso e pudico solo in un’effimera fase di ingenua innocenza primitiva (Satire, 6, 1 ss.; 13, 38 ss.), al termine della quale la malvagità sarebbe dilagata fino a regnare senza ostacoli sulle vicende umane. Secondo Seneca, come detto, i vizi erano ancora in processu; Giovenale sentiva invece di vivere in una società che era arrivata al vertice della degenerazione e che non poteva progredire oltre nel male. Nella prima Satira, in cui espone il proprio programma poetico, egli scrive (vv. 147-150): «non ci sarà nulla di ulteriore che la posterità aggiunga ai nostri costumi; le generazioni future faranno e desidereranno le stesse cose: ogni vizio si è arrestato sull’orlo del precipizio. Usa le vele, spiegale tutte!». Questo passo, molto discusso dalla critica, significa che i vizi sono giunti al loro limite naturale e non sono più in grado di crescere; pervenuti alla sommità si trovano tuttavia, paradossalmente, sull’orlo del precipizio, in una posizione periclitante: è dunque il momento di attaccarli con tutte le forze (questo il senso della metafora nautica «usa le vele, spiegale tutte!»), per spingerli nel baratro e debellarli.
Ai primordi della poesia greca, Esiodo (Opere e giorni, 174 ss.) aveva descritto, con orrore, la propria epoca come una corrotta età ‘ferrea’, antitetica alla primitiva e beata età ‘aurea’, immaginando che Zeus fosse prossimo a distruggere il genere umano giunto all’apice del pervertimento. Giovenale, che sosteneva di vivere in «un secolo peggiore dei tempi ferrei» (Satira 13, 28 s.), non si rassegnava ad attendere un intervento divino o un’estinzione di massa, ma cercava di abbattere e schiantare (o almeno di scalfire…) in prima persona, con la forza della poesia, il vizio trionfante, sfruttandone la paradossale debolezza. Di qui la scelta di scrivere satire (sedici, articolate in cinque libri, pubblicati tra il 100 e il 132) che hanno come unico tema la degenerazione della società romana, minuziosamente descritta – con ossessività quasi paranoica – fin nei suoi aspetti più laidi, e investita con violenza espressionistica, in esametri scintillanti che mescolano turpiloquio, grecismi, arcaismi, parole del lessico quotidiano, stilemi epici e tragici, movenze comiche.
Giovenale, certo, può risultare tematicamente monotono, e può senza dubbio destare repulsione «quel suo miscuglio di descrizioni particolareggiate del vizio e declamazioni inneggianti alla virtù che stuzzica i sensi del lettore e ne rassicura l’ipocrisia» (l’acuto giudizio è della Yourcenar, che lo attribuisce al suo Adriano). Può peraltro creare fastidio il fatto che questo moralista arrabbiato non parli mai male dei vivi ma solo dei morti (la sua condizione sociale non lo poneva al riparo dalle ritorsioni…). Giovenale va tuttavia letto da chi ama la letteratura, perché – per quanto qualitativamente discontinuo e a volte oggettivamente noioso – è stato capace di concepire bozzetti grotteschi ispiratissimi (Satira 6, 1-10, sul ménage familiare dei trogloditi) e capolavori di indignazione sublime (tra tutti Satira 6, 115-132, sulla lussuria di Messalina).
Un’occasione per leggere o rileggere questo poeta è ora fornita dalla pubblicazione delle Satire a cura di Giuseppe Dimatteo, con nuova traduzione dello stesso Dimatteo e di Rita Cuccioli Melloni (Rusconi Libri «Classici greci e latini», testo latino a fronte, pp. LXXVI-735, € 24,00). Per quanto priva di particolari novità testuali ed esegetiche, quest’edizione realizzata con diligenza, che può essere usata con profitto dal lettore comune, grazie alla ricca bibliografia risulterà utile anche al lettore filologo. Le note al testo e quelle di commento sono ampie, per gli standard della collana, e ben documentate, anche se in vari luoghi le scelte critico-testuali e interpretative di Dimatteo non mi paiono condivisibili (mi stupisce un po’, ad esempio, che non sia neppure citato quello che per me è il più brillante contributo alla filologia giovenaliana degli ultimi cinquant’anni, l’espunzione del celebre verso orandum est ut sit mens sana in corpore sanoSatira 10, 356 – proposta nel 1970 da Michael D. Reeve).
La traduzione, in prosa, non ha ambizioni letterarie, ma mira unicamente a rendere con fedeltà il testo latino, ponendosi sulla falsariga di versioni recenti quali quella della sesta satira a cura di Franco Bellandi (Marsilio, 1995) e quella di tutte le satire a cura di Biagio Santorelli (Mondadori, 2011). L’unica traduzione italiana moderna che abbia provato non a rendere ad verbum l’originale ma a creare un testo poetico in grado di emularlo, continua a essere quella, in versi liberi, di Guido Ceronetti (Einaudi, 1971), ricca di spunti felici ma anche di fraintendimenti e cadute di tono. Bisogna tuttavia riconoscere che per tradurre Giovenale in versi italiani all’altezza di quelli latini, con la loro oscena virulenza e le loro virtuosistiche variazioni di timbro e di registro, servirebbe il Montale di Satura, con la preparazione di un classicista provetto e un po’ dello spirito di Céline: un ircocervo che – si può prevedere – non vedrà presto la luce…

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