Cultura

Vivere Gabo per raccontarlo

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Letteratura L’ultimo incontro dell'ex direttore di Le Monde Diplomatique con Gabriel Garcia Marquez. L’autobiografia, l’amicizia con Fidel Castro, la sfiducia verso Hugo Chavez, i ricordi. «Non dimenticare che l’immaginazione è chiaroveggente. Talvolta è più vera della verità. Guarda Kafka, o Faulkner, o semplicemente Cervantes»

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 28 agosto 2014

Mi avevano detto che era all’Avana ma stava male e non voleva vedere nessuno. Sapevo dove soggiornava di solito: un bel cottage, lontano dal centro. Ho chiamato, e Mercedes, sua moglie, ha spazzato via le mie remore: «Ma no – mi ha detto calorosamente – è per tener lontani i rompiscatole. Vieni, “Gabo” sarà contento di vederti».

Il giorno seguente fa un caldo umido. Percorro un viale di palme e mi presento alla porta della loro casa ai tropici. So che Gabriel soffre di un cancro linfatico, e che si sta sottoponendo a una chemioterapia estenuante. Dicono che sia molto grave. Gli attribuiscono anche una straziante lettera di addio agli amici e alla vita… Temo di trovarmi davanti un moribondo. Mercedes viene ad aprirmi e con mia sorpresa mi dice sorridendo: «Entra, Gabo sta arrivando… ha finito la partita di tennis». Nella luce calda del salone, seduto su un divano bianco, dopo poco tempo lo vedo arrivare, in ottima forma, con i capelli ricci ancora umidi per la doccia e il baffo battagliero. Indossa una guayabera (camicia cubana) color oro, pantaloni bianchi molto larghi e scarpe di tela. Un vero personaggio di Visconti.

Sorseggiando un caffè freddo, mi spiega di sentirsi «come un uccello selvatico scappato dalla gabbia. In ogni caso, ben più giovane di quanto sembri». Ma, aggiunge, «con l’età si capisce che il corpo non è fatto per durare tutti gli anni che si vorrebbe». Subito dopo mi propone di «imitare gli inglesi, che non parlano mai di problemi di salute. E’ maleducato».
Il venticello gonfia le tende delle immense finestre e la stanza diventa simile a una barca a vela. Gli faccio i complimenti per il primo tomo della sua autobiografia, Vivere per raccontarla: «È il tuo più bel romanzo». Sorride, si sistema gli occhiali con la grossa montatura di corno. «Senza un po’ d’immaginazione – dice – è impossibile ricostruire l’incredibile storia d’amore dei miei genitori. O i miei ricordi di lattante… Non dimenticare che l’immaginazione è chiaroveggente. Talvolta è più vera della verità. Guarda Kafka, o Faulkner, o semplicemente Cervantes». In sottofondo, la Sinfonia dal nuovo mondo, di Antonín Dvorák, crea un’atmosfera drammatica e gioiosa al tempo stesso.

Avevo conosciuto Gabo verso il 1979. Invitato all’Unesco, faceva parte, con Hubert Beuve-Méry, fondatore del Monde diplomatique, di una commissione presieduta dal premio Nobel Seán MacBride, incaricata di redigere un rapporto sullo squilibrio Nord-Sud in materia di comunicazione di massa. All’epoca non scriveva più romanzi: si era imposto questo divieto finché Augusto Pinochet fosse rimasto al potere in Cile. Non aveva ancora ricevuto il premio Nobel per la letteratura ma era già famosissimo. Il successo di Cent’anni di solitudine (1967) ne aveva fatto lo scrittore di lingua spagnola più conosciuto dopo Cervantes. Ricordo di essere stato sorpreso dal suo aspetto minuto, e impressionato dalla sua gravità e serietà. Viveva come un anacoreta; lasciava la sua stanza, trasformata in studiolo, solo per recarsi all’Unesco.

Quanto al giornalismo, la sua altra grande passione, egli aveva allora pubblicato un reportage ricostruendo l’attacco di un commando sandinista contro il palazzo nazionale a Managua in Nicaragua, azione che aveva accelerato la caduta del dittatore Anastasio Somoza. Riferiva con tali prodigiosi dettagli da dare l’impressione di aver egli stesso partecipato all’avvenimento. Volevo sapere come avesse fatto: «Ero a Bogotá (Colombia) al momento dell’attacco. Chiamai il generale Omar Torrijos, presidente di Panamá. Il commando si era appena rifugiato nel suo paese e non aveva ancora parlato con i media. Gli chiesi di dire ai muchachos di diffidare della stampa, perché i loro obiettivi potevano essere stravolti. Mi rispose: “Vieni! Parleranno solo con te”. Arrivai là e con i capi del commando, Edén Pastora, Dora María e Hugo Torres, ci chiudemmo in una caserma. Ricostruimmo il fatto minuto per minuto, dalla sua preparazione alla sua conclusione. Durò tutta la notte. Sfiniti, Pastora e Torres a un certo punto si addormentarono. Continuai con Dora María fino al mattino. Tornai nell’hotel a scrivere il reportage. Poi glielo portai. Corressero alcuni termini tecnici, il nome delle armi, la struttura dei gruppi…L’articolo fu pubblicato meno di una settimana dopo l’attacco. Ha fatto conoscere la causa sandinista nel mondo».

Ho poi rivisto spesso Gabo a Parigi, all’Avana o in Messico. Ci trovavamo sempre in disaccordo a proposito di Hugo Chávez. Non credeva in lui. Invece secondo me il comandante venezuelano era l’uomo che ci voleva per far entrare l’America latina in un nuovo ciclo storico. Del resto, le nostre discussioni erano sempre molto (troppo?) serie: la sorte del mondo, il destino dell’America latina, Cuba… Tuttavia, una volta ho riso fino alle lacrime. Tornavo da Cartagena delle Indie, sontuosa città coloniale in Colombia; avevo scorto la sua villa a ridosso delle mura e gliene parlai. Mi chiese: «Sai come ho avuto questa casa?». Ovviamente no. «Era il mio sogno abitare a Cartagena – mi raccontò – E quando ne ebbi le possibilità, cercai là una casa. Ma era sempre troppo cara. Un amico avvocato mi spiegò: “Pensano che tu sia miliardario e alzano i prezzi. Lascia che sia io a cercarla per te”. Alcune settimane dopo trova la casa, una vecchia tipografia per metà in rovina. Parla con il proprietario, una persona cieca, e si trovano d’accordo sul prezzo. Il vecchio ha una richiesta: vuol conoscere l’acquirente. Il mio amico torna e mi dice: “Dobbiamo incontrarlo, ma non devi parlare. Non appena riconoscerà la tua voce, triplicherà il prezzo… Lui è cieco, tu sarai muto!”. Arriva il giorno dell’incontro. Il cieco si mette a farmi domande. Rispondo con parole incomprensibili… ma a un certo punto, commetto l’imprudenza di rispondere con un sonoro “sì”. “Ah! – salta su lui – Riconosco la sua voce. Lei è Gabriel García Márquez!” Ecco, mi ha scoperto… E subito aggiunge: “Dobbiamo rivedere il prezzo. Le cose cambiano…”. Il mio amico cerca di negoziare. Ma il cieco ripete: “No! Non può comunque essere lo stesso prezzo. In nessun caso…”. “Va bene, quanto allora?”, chiediamo rassegnati. Riflette un momento e risponde: “Metà prezzo!”. Non capiamo. Allora ci spiega: “Sapete che ho una tipografia. Di che cosa credete che abbia vissuto finora? Delle edizioni pirata dei romanzi di García Márquez!”»

28 ultima storie garcia marquez fidel castrot
Sento ancora l’eco di quelle risate mentre, nel cottage dell’Avana, continuo la mia conservazione con un Gabo invecchiato, ma dallo spirito sempre vivace. Mi parla del mio libro di colloqui con Fidel Castro. «Sono molto invidioso – dice ridendo – hai avuto la fortuna di passare più di cento ore con lui…» «E io – gli rispondo – sono impaziente di leggere la seconda parte delle tue Memorie. Parlerai dei tuoi incontri con Fidel, che conosci da molto più tempo di me. Tu e lui siete due giganti del mondo ispanico. A fare un confronto con la Francia, è un po’ come se Victor Hugo avesse conosciuto Napoleone». Scoppia a ridere, lisciando le spesse sopracciglia.
«Hai troppa immaginazione… Ma devo deluderti: non ci sarà una seconda parte… So che molte persone, amici e avversari, aspettano in un certo senso il mio “verdetto storico” su Fidel. Ma è assurdo. Su di lui ho già scritto quel che dovevo scrivere. Fidel è mio amico; lo sarà sempre, fino alla tomba».

Il cielo si è oscurato e la stanza, pur essendo pieno giorno, adesso si trova in penombra. La conservazione è rallentata, poi è scemata. Gabo sta meditando, lo sguardo assente, e io mi chiedo: possibile che non lasci testimonianze scritte su tante confidenze condivise con amichevole complicità con Fidel? Le conserva forse per una pubblicazione postuma, per quando entrambi non saranno più di questo mondo?

Fuori, dal cielo scende la pioggia con la potenza torrenziale delle burrasche ai tropici. La musica tace. La stanza è pervasa da un intenso profumo di orchidee. All’improvviso Gabo ha assunto l’aria sfinita di un vecchio ghepardo colombiano. Rimane là, zitto e pensieroso, a fissare la pioggia inesauribile, compagna permanente di tutte le sue solitudini. Me ne vado discretamente.
Senza sapere che l’ho visto per l’ultima volta.

* Direttore del Monde diplomatique dal 1990 al 2008
(Traduzione di Marinella Correggia)
Copyright Le Monde diplomatique/ilmanifesto

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