Italia

Vivere dall’altra parte del muro: piccoli rifugiati in fuga

Una mostra alla camera dei deputati Cinque storie di bambini costretti ad abbandonare il proprio paese

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 4 ottobre 2017

Il 3 ottobre del 2013 a 500 metri dalle coste di Lampedusa, in un naufragio morivano 368 persone, solo 155 superstiti di questi 41 bambini, uno solo accompagnato dalla famiglia. Non è un caso che si sia scelta questa data per aprire la mostra al complesso di Vicolo Valdina Bambini, storia di viaggio e di speranza, curata MiMu, il Museo delle Migrazioni, con la collaborazione della Camera dei Deputati, Rai e Unicef.

Ogni volta che costruisci un muro pensa a quello che lasci fuori. Con questa frase, presa a prestito da Italo Calvino, ieri Laura Boldrini ha inaugurato l’evento. La mostra, con allestimento di Studio Azzurro, è un pretesto per capire non solo cosa stiamo lasciando fuori ma anche per parlare dei conflitti dimenticati. Non solo la Siria ma anche la dittatura in Eritrea di Isaias Afewerki, Boko Haram in Nigeria, le atrocità dei trafficanti di uomini in Libia, un lungo elenco a cui purtroppo ogni giorno dobbiamo aggiungere qualcosa.

Cinque storie, raccolte sul campo da Valerio Cataldi e Francesca Mannocchi, attraverso i maxischermi ci proiettano, con gli occhi dei bambini, in una realtà altra; fatta di rammarico per quello che si è stati costretti a lasciare, di sofferenza per quello che si sta passando e di speranza per quello che verrà.

Azziz, otto anni, ci porta a Belgrado nella stazione abbandonata, dove lavarsi a meno venticinque gradi con dei bidoni di acqua riscaldati dalla legna poteva sembrare un gioco, ma gioco non era. La madre, che si trova ancora a Islamabad, per poterlo chiamare ogni giorno cammina per tre ore per uscire dalla zona controllata dai Talebani. Il padre è stato arrestato dalla polizia croata, lui è ancora lì in attesa che lo vada a prendere.
Shamer, nove anni, in fuga dalle bombe con la famiglia e la sorellina più piccola, ora è in viaggio a piedi verso la Germania; incontra sulla sua strada polizia con scudi e manganelli.

Jon, quindici anni, ci racconta le torture che subisce quotidianamente nel centro di raccolta in Libia, vicino a Tripoli, in cui si dorme tutto il giorno, ammassati gli uni sugli altri e si viene svegliati solo per essere frustati con tubi di gomma. Questo se sei un ragazzo e quindi fortunato.

Akhmed, diciasette anni, a cui le bombe hanno sterminato la famiglia, ora è in un campo profughi in Libano. Lì viene contattato da un uomo per essere reclutato alla guerra. L’ultima cosa che gli ha detto il padre è stata che qualsiasi cosa sarebbe accaduta avrebbe dovuto alimentare dentro di se il perdono. Per questo non ha imbracciato le armi, non ha ceduto alla vendetta ma lavora per pochi dollari al giorno in un fabbrica.
La storia di Esrom, cinque anni, chiude il cerchio narrativo e ci riporta all’inizio del racconto. Ha perso la vita nel naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013. Quello che rimane di lui è la macchinina rossa, ormai arrugginita, trovata in fondo al mare e ora chiusa in una teca della mostra.

Ogni minuto 20 persone sono costrette a lasciare la propria casa, di questi la metà sono bambini. Solo in Libia i bambini ufficialmente censiti sono 22 mila, ma se ne stimano molti di più.
I bambini migranti e richiedenti asilo nel mondo sono 11 milioni.
La mostra è gratuita e chiuderà il battenti il 13 ottobre.

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