Vivere a Oslo, «spatriati» di ieri e di oggi
Norvegia Dalla prima ondata di migrazione italiana, nel dopoguerra, a quella più recente est europea, somala o pakistana. La trasformazione del Paese e della sua capitale, la xenofobia e l’integrazione, viste con gli occhi degli «immigrati»
Norvegia Dalla prima ondata di migrazione italiana, nel dopoguerra, a quella più recente est europea, somala o pakistana. La trasformazione del Paese e della sua capitale, la xenofobia e l’integrazione, viste con gli occhi degli «immigrati»
Arrivo ad Oslo che è una luminosa giornata di sole, passeggiando al Vigeland Park sopra un tappeto di foglie morte, le statue granitiche del ciclo della vita che stanno intorno all’obelisco di corpi aggrovigliati sono nitidissime quando le fotografo sullo sfondo di un cielo azzurrissimo, e già il giorno dopo siamo piombati nell’inverno gelido e le strade sono ghiacciate. Allora la gente cammina veloce lungo le vie e tutto è più esistenzialistico, la volta celeste si chiude, e la prima neve scende timida dal cielo, le strade diventano in poco tempo bianche, e la vecchia Christiania sembra già un’altra città, una città che somiglia ancora di più a se stessa, mentre dai tetti delle case il vento con i suoi sbuffi agita nuvole di neve che si disperdono nell’aria.
Dal paese del sole, dall’Adriatico e da un sud povero, ma anche dalle città del nord, da un’Italia bombardata che usciva ferita dalla guerra, arrivarono qui nel Grande Nord già nel 1949 i primi italiani dall’Istria, una delle tante rotte dell’esodo, e poi ancora altri verso l’ignoto dei fiordi norvegesi dopo viaggi di giorni in treno con le valigie pesanti, approdando in luoghi che alcuni avevano visto in cartolina o nelle foto dei libri di scuola. Tra di loro il poeta Luigi Di Ruscio, che ho ricordato all’Istituto di cultura italiano in una saletta stracolma di vecchi e nuovi emigrati, che di questa condizione di «spatriato», come si definiva, scrisse dei versi fulminanti sulla sua postura esistenziale e storica: «Ovunque l’ultimo/per questa razza orribile di primi/ultimo nella sua terra a mille lire a giornata/ultimo in questa nuova terra/per la sua voce italiana/ultimo ad odiare/e l’odio di quest’uomo vi marca tutti/schiodato e crocifisso in ogni ora/dannato per un mondo di dannati».
Giovane e disoccupato arrivò qui riposando le prime notti nei dormitori dell’Esercito della salvezza, e sulla strada principale, la Karl Johans Gate, passava le serate a discutere con altri ragazzi come lui, tra i quali il siciliano Beppe Valvo, che diventò direttore della distribuzione del maggiore quotidiano norvegese, il Verdens Gang, Danilo Rini, fotografo fiorentino arrivato col miraggio delle ragazze nordiche, che poi finì a fare il barman nel sontuoso Grand Hotel; Nicola Di Lernia storico cameriere de «La bella Napoli», locale dell’italianità molto frequentato anche dai norvegesi, dove cantava il menestrello romano Lamberto Giolj, mentre il ciabattino calabrese Grosso venuto qui a fare visita al fratello, ci è rimasto per cinquantatré anni. Insieme a loro arrivarono a metà degli anni ’50 anche alcuni miei conterranei di Fermo, tra i quali mio zio Cesare Dall’Osso e suo fratello Ubaldo, infermiere all’ospedale psichiatrico Gaustad, il più antico della Norvegia. Altri di cui mi hanno raccontato, furono il piastrellista De Paoli da Spilimbergo, l’impiegato di banca Domenico Ajello, traduttore in Norvegia di Benedetto Croce e autore di un saggio su Ibsen, e il fisico nucleare e partigiano Valerio Tosi.
La bottega di Grosso, dove sono stato più di una volta durante i miei soggiorni a Oslo, invece si trova a Youngstorget, ed è stato per tanti nostri connazionali un punto di ritrovo per bere un bicchiere di vino e giocare a briscola o tresette. Sopra la porta d’ingresso c’è uno stivaletto bianco penzolante e la bandiera tricolore. Sono gli ultimi superstiti di quella piccola emigrazione italiana un po’ sconosciuta, quelli che non poterono entrare in Svezia e dirottarono qui: molti di loro poi si sono sposati con donne norvegesi, messo al mondo dei figli, hanno trovato lavoro e adesso da pensionati s’incontrano all’Associazione per giocare a carte, prendere in prestito un libro, partecipare a una conferenza o a una cena.
Come mi ha spiegato Monica Miscali, insegnante del Dipartimento di Letteratura dell’Università di Oslo, «nel dopoguerra l’Italia è un esportatore di manodopera, anche rispettando l’articolo 35 della Costituzione che stabilisce la libertà di emigrazione in antitesi al fascismo, una scelta politica intrapresa per ridurre la disoccupazione. Sono gli anni della tragedia di Marcinelle, e al contrario la Norvegia ha bisogno di manodopera e vuole mostrarsi agli occhi dell’Europa un paese liberale, e una legge varata nel 1956 stabilisce che si può arrivare anche senza lavoro». Ma la capitale scandinava non era pronta per accogliere i nuovi arrivati, mancavano gli alloggi, come si può capire guardando un filmato in bianco e nero al Museo della città di Oslo, che sta dietro il Vigeland Park, Inflytterbyen è il titolo, La città degli immigrati.
Alla periferia della capitale la telecamera inquadra le nuove costruzioni delle case popolari, mentre le renne pascolano libere nei prati circostanti. Quando una maestrina di buone maniere chiede agli scolari dalle facce pallidissime chi di loro è nato ad Oslo, pochissimi alzano la mano, la stessa cosa accade in consiglio comunale, dove su 88 membri solo 33 assentono.
Quando i nostri connazionali arrivano è ancora una città con vecchi quartieri, dove passa il tram trainato dai cavalli, si vedono le barche ormeggiate sull’Akerselva, il fiume che divide nettamente in due la città, ma anche la speranza di vita, perché nella parte centrale di Oslo dove vivono i norvegesi abbienti si campa mediamente otto anni di più. Gli italiani furono tra i primi ad arrivare, erano lavoratori non specializzati e di bassa istruzione, facevano gli operai nelle industrie, nell’edilizia o erano occupati nella ristorazione. Venivano chiamati «degos», «spaghetti», o «mussolini», e non erano ben visti. Intanto perché dicevano che occupavano i locali per incontrarsi e ci stavano per tutta la sera senza consumare, e poi perché «rubavano» le donne ai norvegesi.
Negli primi anni ’70 cominciarono ad arrivare i pakistani e i casi di intolleranza si attenuarono, poi nel febbraio del 1975 il governo attuò il blocco totale dell’immigrazione, negli anni successivi si poteva venire per dispensa, cioè se richiesti come lavoratori, soprattutto. «Siamo stati salvati dai pakistani», mi ha raccontato, scherzando, Beppe Valvo, uno dei vecchi emigrati, «pensa che i norvegesi andavano a caccia di questi poveracci e li buttavano nel fiume». Adesso con la destra conservatrice e populista del Partito del progresso al governo, le cose sono molto peggiorate.
Liv Aaakvik, una delle figure di spicco della cultura teatrale norvegese, attrice e drammaturga di una compagnia storica della sinistra norvegese, il Tramteatret, fondata insieme all’ex marito Terrie Nordby, che è vissuta gli ultimi trent’anni a Grunneløka, nel quartiere alternativo degli artisti anarchici dove ci incontriamo, mi spiega più combattiva che mai: «Il sistema sociale del welfare è ancora funzionante, ma in costante attacco dal governo di destra. La città di Oslo è cambiata, non ci sono più fabbriche e classe operaia, l’ultima è un’azienda che produce cioccolata acquistata da una multinazionale americana, la gente si è imborghesita, il divario tra i poveri e ricchi è aumentato, e gli alloggi sono diventati molto cari. Il mantra dominante è dire che siamo tutti ricchi». Invece, secondo lei il compito dell’artista è di raccontare gli ultimi, i diseredati.
«Molti adesso arrivano dall’Europa dell’est, dalla Polonia, dall’Estonia e dalla Romania, vengono sfruttati e vivono in quartieri fatiscenti, poi ci sono i pakistani musulmani e la destra fomenta l’odio e l’idea che vogliono tramettere è che trasformano il paese con le loro leggi, la Sharia, questo refrain ormai si sente in tutta l’Europa, e qui a Oslo non è diverso». Mi parla dei mendicanti rumeni e delle prostitute africane o dell’Europa orientale molto osteggiati dai norvegesi, «mentre tutta la città si è trasformata, solo a Gronland c’è una società mista, multietnica, con i pakistani, i somali, i loro negozi, il mondo è entrato a Oslo e Oslo è parte del mondo, e la convivenza funziona».
Proprio lì faranno il giorno dopo una manifestazione antirazzista. Quando arrivo la piazza che sta all’uscita della metropolitana è ancora vuota, mentre nevica e il freddo si fa sentire, nei bar dalle luci basse e i vetri opacati vedo le sagome delle persone che stanno bevendo birra. Mi rintano anch’io in un locale per scaldarmi, dentro la legna arde in un grande caminetto. Quando esco, la piazza è già gremita di persone, sotto il piccolo palco lo striscione nero la scritta «Abbastanza è abbastanza», il leader somalo Ahmed Saleban del Somali Welfare Organisation, in mano un megafono, sta tenendo un discorso, la gente agita bandiere, mentre la neve scende dal cielo. Finito il suo intervento, lo raggiungo. Sono ventidue anni che vive qui, «il governo norvegese aveva dato asilo 1600 somali, adesso dicono che il nostro paese non è più pericoloso, quindi vogliono mandarci via». Così hanno organizzato la manifestazione contro il ministro, la gente urla «fermate Sylvi Listhaug!».
Mi racconta che quelli della destra al potere vogliono mandare via più stranieri possibili, «vogliono iniziare con noi somali perché siamo la comunità più numerosa, ma anche perché sanno che nel nostro paese in questo momento il governo non esiste». La ministra Listhaug è nota per un ridicolo viaggio a Lesbo, dove voleva sperimentare la vita degli immigrati che arrivano dal Mediterraneo, con una tuta arancione mimetica si è fatta gettare in acqua mentre la filmavano, ed è rimasta pochi secondi nelle acque del mare; quando poco dopo è stata recuperata, ha detto che era meraviglioso essere salvati. La gente radunata a Gronland continua a urlare contro di lei mentre la neve turbina nel cielo nero di Oslo, e le strade ghiacciate sono già quelle di un lungo e buio inverno che durerà molti mesi.
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