Vivaldi, cinque teatri si contendono il Tamerlano
Alias Domenica

Vivaldi, cinque teatri si contendono il Tamerlano

Improvvisi A proposito di un piccolo miracolo di virtuosismo produttivo
Pubblicato più di un anno faEdizione del 22 gennaio 2023

Antonio Vivaldi aveva fame d’aria. Gli mancava il respiro. L’asma, che lo ha tormentato sin dai primissimi anni di vita, gli spezzava il fiato in gola, gli impediva di camminare, costringendolo a uscire soltanto in gondola o in carrozza. Lo confessa lui stesso in una lettera spedita il 16 novembre del 1737 al Conte Bentivoglio: «Sono 25 anni che non dico messa, né mai più la dirò, non per divieto o comando, ma per mia elezione, e ciò stante un male che patisco a nativitate, per il quale io sto oppresso (…). È male di petto o sia strettezza di petto».

Questa «strettezza di petto» – come racconta Emanuela Fontana in un recente romanzo biografico, Il respiro degli angeli (Mondadori) – ha impresso alla esistenza di Vivaldi il tratto costante dell’ansia, peggiorata, forse indotta, dagli innumerevoli doveri di sacerdote, insegnante, violinista, compositore, impresario che scandivano i suoi giorni e le sue notti.

Sarebbe peccato mortale mettere in relazione la «fame d’aria» di Vivaldi con il suo stile compositivo. Ma è senz’altro legittimo immaginare che egli abbia cercato di trasformare questa sua debolezza in una forza: la forza della creazione continua, instancabile, compulsiva. Quasi per trovare nel gesto dell’invenzione senza sosta la cura, il pharmakon, in grado di fargli tornare in petto il soffio, l’alito, il sospiro che l’asma gli rubava.

Potrebbe essere questa una delle ragioni, accanto a quelle meramente pratiche e concrete, dei numeri iperbolici del suo catalogo delle opere: il catalogo tematico pubblicato da Peter Ryom nel 2007 conta 791 numeri d’opus, appartenenti a tutti i generi musicali che un compositore del tempo poteva praticare.

Tra i quali acceca in modo particolare il numero dei cosiddetti drammi musicali: 83. Non tutti, come si sa, sono composte da musiche originali e create per l’occasione: al contrario la tecnica prevalente era quella – ammessa apertamente o taciuta pietosamente – del cosiddetto «pasticcio», ossia di un’opera costituita da materiali musicali eterogenei tratti da opere di diversi compositori.

Non faceva scandalo, allora, assemblare un’opera muova utilizzando la tecnica del collage o del centone, utilizzando cioè arie più o meno celebri di altri compositori coevi oppure arie tratte da opere precedenti dello stesso compositore. Come se Verdi, insomma, nel Rigoletto avesse utilizzato brani tratti dal Nabucco, dall’Ernani, dalla Norma e dalla Figlia del reggimento

È esattamente quanto succede in uno dei più illustri pasticci vivaldiani, il Tamerlano, nato a Verona nel 1735, recentemente tornato alle antiche fortune grazie a una edizione discografica diretta da Ottavio Datone con l’Accademia Bizantina e soprattutto a una nuova produzione teatrale che deriva in buona parte dall’incisione e che sta circolando in queste settimane sui palcoscenici di molte città italiane.

Un piccolo miracolo di virtuosismo produttivo che è riuscito a tenere insieme (cosa rara!) ben cinque teatri diversi: Il Teatro Alighieri di Ravenna, capofila della cordata, il Teatro Municipale di Piacenza, la Fondazione Teatri di Reggio Emilia, il Teatro Pavarotti di Modena e il Teatro del Giglio di Lucca. Una insolita «intesa cordiale» che consente, di qui al 19 febbraio, di mettere in scena ben dieci repliche di un titolo raro che rompe con forza l’insensata corsa al «grande repertorio» di cui sono ormai prigionieri i teatri italiani (lo denunciava Dino Villatico nello scorso numero di «Improvvisi») e mette al centro dal palcoscenico le maraviglie dell’opera barocca.

Lungi dall’essere un genere «minore», eclettico e disomogeneo, il «pasticcio» era in realtà, nel primo Settecento, la sintesi perfetta tra il desiderio di novità, di stupore e di incanto sentito dal pubblico come una necessità e il radicamento nella solida tradizione del tempo presente. Una «emergenza» di cui anche il pubblico di oggi, se qualcuno si prendesse la briga di ascoltarlo, avrebbe una fame inestinguibile. Non solo di aria.

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