Vittorio Lingiardi, la psiche si fa carne, alla ricerca di qualche tatto
Saggi «Corpo, umano», da Einaudi
Saggi «Corpo, umano», da Einaudi
«Il corpo c’è, e c’è, e c’è»: con l’«implacabile semplicità» dei versi di Wislawa Szymborska si apre il «viaggio» di Vittorio Lingiardi all’interno di un oggetto che resta per lui ambiguo, assillante, e il cui mistero appare anche per il discorso analitico inesauribile: Corpo, umano (Einaudi, pp. 296, € 20,00) affida a un’articolazione di voci, quelle della medicina e dell’arte, il compito di «raccontare» uno a uno gli organi, di ripercorrere in modo non disciplinato il desiderio e lo sgomento che suscitano, di mantenere così intatta la tensione dello sguardo e la sorpresa per l’esperienza di cui il soma consiste. Benché ci sia, infatti, oggi – e paradossalmente – accade che il corpo progressivamente svanisca, perdendo presenza nelle relazioni quotidiane come nella struttura sociale, e insieme per altro verso si afferma nell’attenzione ossessiva alle sue immagini, al controllo sulle tecniche di riproduzione o sui flussi migratori, oppure nelle somatizzazioni e in altri disturbi a cui il setting analitico, con le sue «dimensioni incarnate», tenta di dare voce. In ogni caso, questa scomparsa, marginalizzazione, «sospensione» del corpo separa radicalmente il nostro secolo da quello precedente di cui già Walter Benjamin, scoprendo l’attitudine delle masse novecentesche ad avvicinare gli oggetti, aveva messo in luce il carattere «tattile»: di qui l’urgenza di riportare al centro della scena un corpo ormai «umiliato, sedotto, contraffatto, idolatrato», di accettarne l’enigma e di ammettere che il fatto stesso di essere un corpo, di avere un corpo, ci impedisce di conoscerci fino in fondo. Mentre continuiamo a interrogarci stupefatti sulle ragioni per cui desideriamo – «È tutto di lui che desidero (una sagoma, una forma, un’aria)?», si chiedeva Roland Barthes, «O è solamente una parte di quel corpo? E, in tal caso, che cos’è che, in quel corpo amato, ha per me il valore di feticcio? Quale porzione?» –, tendiamo a dimenticare che l’incantesimo dell’innamoramento è insieme «sensuale e cognitivo» e l’evidenza con cui il corpo ne è il protagonista assoluto.
Il racconto di Lingiardi attraversa tre «stanze»: «Il corpo ricordato», «Il corpo dettagliato», «Il corpo ritrovato». Parte dalla biografia, con l’atteggiamento inquieto di chi interroga (il primo corpo incontrato, quello della madre, poi il primo scandagliato come studente di medicina); percorre il lungo elenco degli organi con le sue ricchissime stazioni mediche, artistiche e letterarie (cuore, stomaco, utero, cervello, polmoni, occhi … Charcot, Freud, Winnicott, Frida Kahlo, Tiziano, Pollock, Almodóvar, Whitman, Philip Roth, Tertulliano…), e giunge a ripensare, forte di un «ordine» e di un «senso» ritrovati, il ruolo di chi cura. È a chi cura, infatti, che il libro è dedicato, in un tempo di medicina iperspecialistica troppo spesso dimentica che il fine della professione è occuparsi del malato, non solo della malattia. Ed è al raccontare, quindi, che Lingiardi si affida per riannodare i legami tra la medicina e il corpo, tra una pratica psicoanalitica sempre più chiamata in causa da disturbi che si manifestano tramite tagli sulle braccia, ossa sporgenti, infarti simulati, freddezze narcisistiche, disforia di genere, e la sua consapevolezza originaria che «l’Io è innanzitutto un’entità corporea… – scriveva Freud – derivato da sensazioni corporee, soprattutto… provenienti dalla superficie del corpo». Del resto, all’origine della psicoanalisi sta proprio l’ingresso della malattia fisica, senza cause organiche, nella sfera del linguaggio: tra il teatro della Salpêtrière, dove Charcot esibiva le pazienti isteriche, e il divano della Bergasse la scienza scopre che malattia e cura convivono nella narrazione e nella esibizione di sé. Non basta, dunque oggi, disegnare il corpo sul piano teorico, occorre affrontarlo nuovamente sulla scena clinica, vederlo muoversi per imparare a toccarlo. D’altronde, il setting è, nonostante la sua neutralità, «prima di tutto uno stato vivo della mente», e il corpo stesso dell’analista deve mettersi in gioco come «una forma incarnata di setting».
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