Pensate a Kathy Bates in Misery non deve morire, a Charlotte Rampling in Il portiere di notte, a Gena Rowlands in GloriaUna notte d’estate, a Jessica Lange in King Kong, a Liv Ullmann in Scene da un matrimonio, a Diane Keaton nella trilogia di Il padrino. Tutti questi magnifici volti sono accomunati dalla stessa voce, una delle più importanti del doppiaggio italiano, quella di Vittoria Febbi. Nata ad Asmara, in Eritrea, nel 1939, fin da piccola studiò dizione e frequentò la prosa radiofonica presso la Rai di via Asiago a Roma; poi il teatro e una manciata film, finché a 12 anni non arrivò la folgorazione del doppiaggio grazie ad Alice nel paese delle meraviglie di Walt Disney, cui dà voce alla protagonista. Da qui, per oltre sessant’anni, ci ha accompagnati diventando presenza familiare lungo le nostre visioni.

Vittoria, c’è però un nome che avrebbe voluto doppiare e che le manca nella sua lunga lista?
Onestamente no… In mezzo a questi nomi vorrei ricordare anche Fanny Ardant, che ho doppiato ne La famiglia di Scola. In un’intervista disse che le era piaciuta la mia interpretazione perché sembrava che avesse parlato lei in italiano. In quanto a qualcuna che avrei voluto doppiare, mi bastano le bravissime attrici cui ho prestato la voce. Mi accontento (ride, nda).

Oltre a Fanny Ardant, ricevette complimenti anche da altre?
Sì, Liv Ullmann mi regalò pure un suo libro, con la dedica «spero proprio di poterti incontrare di nuovo». Nonostante la mia timidezza, andai a conoscerla all’Hotel Hassler di Roma, perché in un’intervista televisiva disse che avrebbe voluto incontrarmi. Fu meraviglioso. Un altro incontro molto bello fu con Gena Rowlands. Mi telefonarono dicendomi che mi voleva parlare, pensai a uno scherzo, poi mi passarono veramente lei. È una donna molto divertente e mi chiese quanto tempo ci voleva per doppiare i suoi film, temevo nel risponderle perché ci mettevamo circa una decina di giorni. Lei rimase un po’ così e mi disse: «Ma allora tu fai psicanalisi!» (ride, nda).

Esiste invece un’attrice che non ha sentito nelle sue corde pur comunque avendole prestato la voce?
Mi è successo in alcuni ridoppiaggi dei film con Marlene Dietrich. E preciso ridoppiaggi, perché prima di me le aveva dato voce la grande Tina Lattanzi. Comunque, ero giovane, avevo una voce fresca e la Rai mi volle comunque provinare. Non lo volevo fare, ma insistettero. Alla fine cedetti, feci il provino e nonostante ai funzionari andasse bene, la mia paura era così grande che chiesi di rifare tutto daccapo. Era presente anche Claudio G. Fava, che mi guardò un po’ perplesso. Erano film in cui Dietrich era giovane, ma aveva sempre il suo volto importante. Naturalmente non è che non ci tenessi nel fare una cosa bella e, alla seconda prova, la feci più aderente. È anche questione di interpretare quello che le stesse attrici hanno incarnato, sempre. Nel caso di Dietrich ho cercato di rimanere sulla fatalità senza scurire la voce, cercando di non violentare niente, di non esagerare.

Sulle attrici italiane, invece?
Non ho mai amato particolarmente doppiare le attrici italiane, non lo ritenevo necessario. Però conservo dei bellissimi ricordi. Il primo è quello di Vittorio Gassman. Ci incontrammo mentre doppiavo Agostina Belli in Profumo di donna di Dino Risi, il quale mi chiamava spesso per i suoi film. Gassman venne in sala per congratularsi e rimasi ammutolita perché disse che avevo dato vitalità al personaggio. Mi sentii in dovere di difendere Belli. Lui, comunque si complimentò ancora e per me fu una soddisfazione, dato che non era proprio tenero con chiunque. Il secondo è di Laura Antonelli, che doppiai in Passione d’amore di Scola e fu nominata ai David come Miglior attrice non protagonista. Durante il doppiaggio di Gli indifferenti di Bolognini, io doppiavo Ullmann e lei sé stessa. Mauro mi stimava molto, così mi fece dirigere Laura, la quale mi disse che voleva dare la targa del David alla doppiatrice di Passione d’amore. A me venne un colpo e visto il mio carattere non le dissi nulla. Mauro, che era lì, capì e mi fece intendere che dovevo dirglielo. Lei, dolcissima, mi abbracciò.

Con Rita Savagnone e Maria Pia Di Meo avete costituito una delle triadi femminili più prestigiose del doppiaggio per oltre sessant’anni, tra l’altro siete per coincidenza tutte e tre coetanee.
Per fortuna la voce è la cosa che invecchia di meno (ride, nda). Ho sempre nutrito molta stima per entrambe. Praticamente abbiamo trascorso la vita assieme, sempre nelle sale. Capitava spesso di trovarci al leggio tutte e tre, era una cosa molto bella potersi dare le battute, c’era una competizione sana e non ci siamo mai ostacolate. Ogni tanto ci sentiamo ancora e per lavoro capita di vederci.

Ha raccontato che a 12 anni venne scelta dalla Disney per incarnare vocalmente Alice, nell’omonimo cartone animato del 1951, perché la sua voce ricordava «un trillo di campanello». Ebbe in quest’occasione l’effettiva consapevolezza di possedere un dono?
Ho sempre avuto la voce più giovane della mia età, che poi mi ha fatto comodo anche in seguito, pure adesso. All’epoca avevo una vocina molto acuta, particolare. Ricordo che fu un grande piacere soprattutto per la musica, che per me è tutto, reduce dai miei studi di pianoforte. Quando mi proposero anche di cantare, fui felicissima. Mi affiancarono un docente del Conservatorio Santa Cecilia. E sì, ebbi qui la consapevolezza della mia voce, ma sempre con l’ingenuità di quel momento, essendo una bambina. Questa consapevolezza si consolidò nel 1959, con Il diario di Anna Frank in cui doppio Millie Perkins, la protagonista. Tutt’altro registro rispetto a Disney e infatti ero portata a emozionarmi fortemente. Sono contenta però di questo mio carattere, evidentemente l’ho messo a servizio del lavoro che ho svolto e non è scontato.

Tra il 1949 e il 1960 girò una decina film, tra cui «Campane e martello» di Luigi Zampa, «La regina delle piramidi» di Howard Hawks, «La carrozza d’oro» di Jean Renoir…
Quello di Hawks non lo ricordo. Di Campane a martello ricordo solo che tutti i giorni mi mettevano una parrucca che dava un fastidio enorme e piangevo perché me l’attaccavano col mastice. Ricordo poco anche perché questi film non li ho fatti volentieri, era mia madre che mi spingeva a farli. Era molto ambiziosa.

Un po’ come Anna Magnani in «Bellissima».
Tra l’altro, non vorrei sbagliarmi, ma una volta mi disse che mi aveva portata a un provino per un film in cui appunto cercavano una bambina… Però ero troppo carina. Chissà perché, quando ho visto il film di Visconti, ho pensato che fosse quello. Era intraprendente, mia madre. Non ho preso da lei.

Di lei stessa infatti dichiarò che non ha «l’estroversione e l’ambizione di mettermi in vista».
Ho scelto la strada del doppiaggio appunto per eccessiva timidezza. È vero anche che alcuni attori si spacciano per timidi, poi fanno di tutto. Si vede che la mia è una timidezza patologica (ride, nda). Penso sia sbagliato parlare di “eredi” perché ritengo che ogni doppiatrice o doppiatore possegga la sua cifra identificativa.
E così dev’essere, riguardo al discorso ereditario, ovvero che ognuno ha le sue caratteristiche. La tecnica oggi aiuta un po’ troppo ed è una parola che non amo. Tornando ad esempio ai miei ridoppiaggi, non è che facevo il verso a Lydia Simoneschi, a Tina Lattanzi o ad Andreina Pagnani. Ognuno è quello che è. Personalmente non ho mai voluto rendere la mia voce impostata, mentre recito cerco di essere sempre più in preda all’emozione che all’artificio. All’epoca dei doppiaggi di Rocky III o di Il padrino, dove Ferruccio Amendola dava la voce a Sylvester Stallone e ad Al Pacino mentre io a Talia Shire e a Diane Keaton, non c’era impostazione ma non è che non si capisca cosa diciamo. Oggi c’è la tendenza a calare, a sussurrare, a uniformare, pur avendo doppiatori validissimi.

Sta continuando a lavorare?
Sì, ho una società di doppiaggio che gestisco assieme ai miei figli. La creai qualche anno fa perché volevo contribuire a mantenere un po’ di qualità nel settore. Nel frattempo doppio ancora e continuerò finché le «mie» attrici ci saranno.