«Scommetto che non hai fatto neanche la guerra, vero?», chiede con arroganza il camerata Carlo Frascioni. «Ho perso degli amici, la guerra ha preso mio fratello, ha distrutto mio padre, quindi sì, ho fatto la guerra», risponde André uno dei due protagonisti di Come prima, quinto lungometraggio del regista francese Tommy Weber e tratto dall’omonimo fumetto del 2010 di Alfred (Lionel Papagalli). André è di Procida, non ha aderito al fascismo ma non lo ha nemmeno combattuto con la veemenza dei partigiani, lo ha subito senza farne parte.

SUO FRATELLO maggiore Fabio, il secondo protagonista del film, invece, ha preso le armi in mano per Mussolini in Eritrea e poi in Italia tra le Alpi contro gli antifascisti. Carlo è un suo amico, uno con cui ha compiuto dei crimini probabilmente indicibili e che ora pretende di ricordarli con nostalgia. Fabio tace, non perché sia pentito, forse solo per quieto vivere, ormai lui è uno sconfitto, gli rimane solo una rabbia individuale da sfogare in modo estemporaneo, in un incontro di boxe, uno dei modi con i quali sopravvive, o in una rissa provocata per un qualsiasi futile motivo. Del fascismo, più che i ricordi, gli sono rimasti la violenza e l’istinto a prevaricare il prossimo.

L’INCONTRO con Carlo è solo uno dei brevi momenti che contraddistinguono un lungo viaggio che ha inizio in Francia, la terra dove ha trovato riparo Fabio, e termina a Procida, l’isola dove André è rimasto al fianco del padre morente. Più che il fascismo e la guerra, al centro di tutto è proprio la figura paterna. L’intero road movie di Weber, ben interpretato da Francesco Di Leva (Fabio) e Antonio Folletto (André), ruota intorno al dissidio tra un padre antifascista e un figlio che ha indossato la camicia nera e che a un certo punto ha scelto di evadere dall’isola convinto che la vera vita, quella che dona la morte agli altri, fosse là fuori. Non vi è, dunque, una vera simmetria tra i due fratelli. In questo, forse, il film pecca di scrittura o probabilmente sceglie di rendere André totalmente subalterno a Fabio e a un padre che di fatto è assente, una sorta di fantasma.

L’incontro con Carlo è solo uno dei brevi momenti che contraddistinguono un lungo viaggio che ha inizio in Francia, la terra dove ha trovato riparo Fabio, e termina a Procida

A ESSERE molto presente è il paesaggio, quello francese dove i due fratelli si incontrano nuovamente, quello italiano del 1956, nel quale non si avvertono più le tracce del Dopoguerra. Ed è questo il punto critico di un film che se raccontasse la storia di due fratelli dai diversi destini, impegnati nel comprendersi o nel rifiutarsi in via definitiva, potrebbe definirsi riuscito. Il fascismo e la guerra, i cui effetti sono ricordati in quel breve dialogo citato all’inizio, risultano quasi degli espedienti, diventano oggetto di scelte individuali come se non avessero riguardato moltitudini di persone, carnefici e vittime travolte da qualcosa di mostruoso. Per Fabio e André, a un certo punto, si tratta di tornare o meno nell’isola, di riavvicinarsi o no al padre, di ripensare a Maria, la donna amata, di essere quelli di un tempo ormai trascorso. Ma dopo quella parte di Ventesimo secolo, niente potrà essere come prima.