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Vittime e carnefici da museo

Vittime e carnefici da museoJenny Holzer, veduta dell'installazione a Palazzo Correr

Intervista Un incontro a Venezia, in occasione della sua mostra a Palazzo Correr, con l’artista americana Jenny Holzer celebre per i suoi «Truism». «I miei War Paintings sono il frutto di un lavoro di scavo tra registrazioni di interrogatori, referti di autopsie e lettere di prigionieri in archivi riservati del governo»

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 2 gennaio 2016

La Biennale progettata e irradiata sul Capitale di Marx da Okwui Enwezor, ha portato in dote nei suoi eventi collaterali – e in uno dei luoghi espositivi storici di Venezia, la Sala delle Quattro Porte del Museo Correr – i War paintings di Jenny Holzer: sono l’estremo approdo artistico della decennale desecretazione degli archivi militari statunitensi dall’11 settembre 2001 alla «guerra infinita» dichiarata da George Bush jr. al terrorismo. Il progetto antologico lagunare è stato curato da Thomas Kellein, con la collaborazione della direttrice dei Musei Veneziani, Gabriella Belli e, oltre alla mostra, ha prodotto un libro d’artista realizzato dalla stessa Holzer. Durante i rutilanti giorni del vernissage della Biennale l’artista americana, molto schiva e concentrata sulle sue installazioni presenti e future come non ha mancato di sottolineare, si è lasciata intervistare, riuscendo a trasformare il suo intervento in una performance d’alta scuola oratoriale e civile. Vuoi per il tema della rassegna, vuoi per la sensazione di partecipare a un evento che la storia della Biennale dirà se nodale per il futuro dell’arte, è sembrato che Holzer partecipasse a un happening condiviso, in cui il triangolo «artista opera pubblico» andava perdendo i suoi angoli precipitando in una sottile linea che demarcava solo la durata della visita e la visione riflessiva totale dei suoi giganteschi oli e serigrafie. «Il mio è un invito a guardare e a fermarsi a leggere», ha affermato. Quella Jenny Holzer dei War Paintings sembra lontana in apparenza dalle allocuzioni concettuali dei Truism, le frasi verità decostruite dall’ovvio che l’hanno resa celebre. Non lo sono le sue parole che hanno avuto in mostra un loro preciso significato: scritto e scolpito, proiettato e luminoso, tanto per scomodare cifre e materiali stilistici a lei cari e congeniali.

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Dunque, cosa rappresentano le opere «War Paintings»?
Ho raccolto appunti, carte geografiche, registrazioni di interrogatori, referti di autopsie e lettere di prigionieri, appartenenti ad archivi riservati del governo degli Stati Uniti. Tutti hanno riguardato la guerra globale al terrorismo lanciata all’indomani dell’attacco al World Trade Center con le operazioni militari in Afghanistan e in Iraq.

Erano quindi documenti non accessibili?
Sì, testimonianze a lungo censurate che, una volta rese pubbliche, ho cercato di rappresentare in modo artistico; la loro artisticità l’ho ritrovata realizzando una serie di serigrafie e dipinti a olio su lino, ingigantendo però la dimensione originale del documento collezionato. E ripeto: le opere sono un invito a leggere e a guardare. Forse, anche a capire come nella guerra non esistano differenze: il nemico e la vittima spesso si somigliano, come l’amico e il carnefice. Tutto questo è davanti a noi. Ancor oggi.

In tutto sono circa una ventina le opere esposte a Venezia; iniziate nel 2001 – «ero davanti alla tv quando tutto è accaduto e ho visto le Torri Gemelli colpite dagli aerei e poi accartocciarsi su se stesse. È stato terribile» – e sono andate crescendo di numero nel tempo: sei risalgono al triennio 2006-2009 e fungono da indirizzo, nel labirintico percorso di arrivo, tra gioco antico e contemporaneo, tradizione e ricerca, conservazione e innovazione, alla dozzina di opere collocate nella Sala delle Quattro Porte, dischiuse alla violenza del dato, all’impossibilità di confutare il referto, alla volontà di conoscere come sono andate veramente le cose. Come già detto in una precedente intervista, l’artista sottolinea la sua totale sincerità verso il documento. La traduzione in parallelo suona press’a poco così: «Ci è voluto del tempo e molta cura. Desideravo con grande forza che tutta l’opera emanasse sincerità. Ho cercato l’umanità, l’elemento umano, d’altronde è un materiale che già parla da sé».

Come si è trovata a dover lavorare in un contesto ad alto voltaggio storico come è il Museo Correr?
È stato affascinante. Ho subìto la fascinazione storica del luogo. Le sculture, le decorazioni delle sale, il flusso continuo delle opere ha suscitato in me reazioni del tutto positive. Le mie opere non ne hanno risentito; anzi, hanno acquisito ancor più forza: soprattutto il ciclo serigrafico e i dipinto a olio di lino hanno qualcosa di accademico, di classico come anche le scritte volutamente riprodotte a mano. Una per una. Il contenuto poi dice altro. Questo è un altro discorso, come ho già detto, che ha a che fare con i dispositivi concettuali tirati fuori dalla mole documentale desecretata. Ed è molto interessante la relazione instaurata con gli artisti e le opere ospitate da Okwui Enwezor nel Padiglione Centrale della Biennale. La lettura del Capitale di Marx arriva fin qui.

Già: del contenuto si è detto, mentre la variazione cromatica delle opere, con le scale dei grigi come dei blu ferite dai grassetti delle parole e dalle biffate delle cancellature, sembra recuperare le originali interferenze artistiche che hanno influenzato la prima Jenny Holzer. Si ritrovano suggestioni del Color Field come dei Suprematisti russi, ma c’è anche la sovversione lettrista-situazionista che pare corrodere le distanze tra un Novecento che persiste nell’immaginazione, ma che nei fatti è ridotto a puro file pronto al download. Il suo bersaglio non sembra essere l’occhio, ma il sentimento.

Il mio messaggio è estremamente concreto. Se ci sono riuscita fino in fondo questo non posso saperlo. So solo che mi sono trovata di fronte a una mole gigantesca di documenti che raccontavano di violenza e guerra. E mi sono interrogata su quel materiale: «può sembrare tutto molto semplice. C’è solo violenza, violenza e violenza…». A tal proposito qualcuno ha parlato di «coraggio salvifico» dandolo come sua soluzione alle storture create, anche ad arte, dalla realtà e dalla sua ferocia quotidiana, soprattutto a beneficio delle nuove generazioni. Il mio è, però, uno sguardo d’artista.

Anche se il suo lavoro sembra più somigliante a quello del giornalista d’inchiesta e all’archivista che cerca di classificare i documenti per poi consegnarli alla storia e alle sue molteplici prospettive di racconto…
Sì, il libro che è stato prodotto evidenzia gli aspetti citati che rivestono una loro precisa e puntuale rilevanza. Dicono: c’è dietro tutto un lavoro, una lettura, una scelta; ma non voglio dimenticare – e lo ribadisco – che il mio è uno sguardo d’artista. Provo ogni giorno a dare o a cercare di offrire risposte non solo con il mio lavoro, ma soprattutto a partire da quello. Non mi tiro indietro. Anche se il mondo è diventato complicato e molto triste, cerco con tutta me stessa, con il mio essere donna e artista, di trovare la forza di rispondere. Certo, rimangono numerose le domande da porsi. E bisogna, prima o poi, trovare le risposte per ognuna di queste.

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