Cultura

Vite provvisorie dietro la spietatezza dell’algoritmo

Vite provvisorie dietro la spietatezza dell’algoritmoMira Oosterweghel, «Precarious Life» (2016)

SCAFFALE «Lavoretti. Così la sharing economy ci rende tutti più poveri», di Riccardo Staglianò edito da Einaudi

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 16 marzo 2018

Il successo dell’economia delle piattaforme dipende dalla crisi dei redditi e dall’affermazione strutturale del lavoro povero. Non hai un’occupazione stabile, o lavori a intermittenza, ma hai una casa di proprietà? Airbnb mette a disposizione una piattaforma per affittare una stanza e diventare host. Un genitore si è ammalato e la sua pensione non basta a pagare la clinica, anche perché i tagli alla Sanità hanno imposto la cancellazione del presidio ospedaliero distante pochi chilometri. Allora è possibile integrare il reddito – o, in molti casi, farne una professione – facendo l’autista Uber, correndo in bicicletta per consegnare pranzo e cena con Deliveroo. In Lavoretti. Così la sharing economy ci rende tutti più poveri (Einaudi, pp. 232, euro 18) Riccardo Staglianò racconta la storia di Mary Joy, autista Uber a Chicago, nata nelle Filippine, emigrata negli Stati Uniti. Anche in stato avanzato di gravidanza Mary Joy ha continuato a guidare. Invece di assumerla, eventualità impossibile in un sistema in cui vige la «declassificazione» del lavoro dipendente in lavoro autonomo mascherato, Uber ha promosso Mary Joy a testimonial.

IN QUESTI CASI il problema è duplice: il lavoro sottopagato e ultra-precario (il «lavoretto») è consustanziale al capitalismo digitale, in più la forza lavoro è caratterizzata dall’antropologia dell’imprenditore di se stesso che la porta a trasformarsi in un soggetto prestazionale che accumula micro-lavori e si ammala di stress, depressioni e precarietà. Il punto di non ritorno è il lavoro gratuito, l’elemento strutturale dell’economia delle piattaforme: si sta su Facebook per gioco e si produce ricchezza per il suo proprietario. Questo «lavoro» è un plusvalore assoluto prodotto dalla forza lavoro e non riconosciuto. In più sono i lavoratori a pagare le spese alle piattaforme quando mettono a disposizione la macchina, il telefono, la bicicletta. Tra evasione fiscale e occultamento delle persone al lavoro, il digitale – di cui la sharing economy è parte – è il paradiso dei capitalisti.

LAVORARE senza un compenso propriamente detto, pagare per lavorare: questa è la condizione materiale dei lavoratori, e dei consumatori, che si scambiano i ruoli nel sistema di intermediazione e disintermediazione digitale. Questa condizione è rimossa in un sistema che Staglianò, ricorrendo alla psicoanalisi, definisce «incantatorio». Amazon sembra portare a casa un libro, o un frigorifero, grazie alla magia dei droni, non attraverso un sistema di appalti e subappalti che coinvolgono agenti sub-accomandatari. Lo stesso accade con le aziende di consegna di cibo a domicilio: le moto e le biciclette non sono guidate da un algoritmo, ma da esseri umani che obbediscono a un sistema di controllo a distanza in cambio di compensi tendenti al cottimo.
Dietro gli algoritmi c’è la forza lavoro dei clickworkers – i lavoratori del click – che taggano, categorizzano, riconoscono, moderano i commenti su Facebook, corrono in bici o in auto, rendono intelligenti le formule matematiche che aumentano la produttività e amplificano l’(auto)sfruttamento. In questa parabola del lavoro digitale c’è tutta la storia del lavoro contemporaneo: al netto della disoccupazione e della povertà assoluta, il salariato si trasforma in prestazione contingentata mentre si consolida l’illusione della libertà che coincide paradossalmente con lo sfruttamento. Non c’è nessuna magia, ma il prodotto di un sistema che sussume il lavoro vivo erogato da una forza lavoro dentro e soprattutto fuori dai rapporti di lavoro.

NELLA MACRO-STORIA Staglianò inserisce la propria biografia. Il padre si è emancipato dalla povertà e ha fatto il bancario. Si ammala, la pensione più che dignitosa non basta tuttavia a pagare la clinica. Il giornalista aiuta la madre ad affittare un appartamento su Airbnb e racconta quello che in moltissimi fanno in Italia. La rendita immobiliare è usata dal ceto medio impoverito per compensare il sotto-salario e integrare il reddito. Da popolo di proprietari di casa siamo diventati micro-imprenditori di immobili, attori poco consapevoli della lotta contro i monopoli dell’industria alberghiera o dei tassisti condotta dalle piattaforme digitali.

MOLTE sono le soluzioni, e non riguardano solo la regolazione fiscale della concorrenza inter-capitalistica tra nuovi e vecchi attori della mobilità, della distribuzione, del trasporto. Tutto resta da fare. Su questi aspetti la commissione Ue, e alcuni tribunali del lavoro, oltre che le corti europee sono intervenute, ancora in maniera del tutto insufficiente. Il rimedio principale consiste nel trovare una soluzione al drammatico problema del reddito. Anche Staglianò parla di reddito di base, sganciato dalla miserabile prestazione lavorativa capitalista. Non ne è convinto appieno, ma racconta una sperimentazione in Finlandia e intervista il suo teorico Philippe Van Parijs. Il reddito è un’approssimazione, non è un traguardo escatologico. Tuttavia resta uno strumento per restituire alle persone la facoltà più importante: l’autonomia che non è un bene o un servizio da acquistare attraverso una «app».

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