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Vite di falsari, da cavar sceneggiature

Vite di falsari, da cavar sceneggiatureOtto Wacker (ultimo a destra) sotto processo, 1932, con i falsi van Gogh sullo sfondo

Noah Charney, "L’arte del falso", Johan & Levi Joni, Malskat, van Meegeren, Pereny, Wacker... Il libro è interessato non a definire tipologie o concetti, ma a narrare con piglio giornalistico

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 28 giugno 2020
Han van Meegeren, “Cristo e l’adultera”, 1942, uno dei falsi Vermeer, Zwolle, Museum de Fundatie

 

I giovani gabbavano i vecchi fin da Plauto e ancora ai tempi di Rosina e di Don Bartolo parevano non averne persa l’abitudine. C’è sempre stata simpatia da parte del pubblico verso quanti si dimostrano capaci d’aggirare l’inutile precauzione, tanto più quando questa si fonda su un’autorità inveterata, intaccandola, sbertucciandola: è una soddisfazione da giorno di Carnevale. A questo favore antico sembra riallacciarsi Noah Charney nel suo L’arte del falso (pp. 293, euro 30,00, illustrato, Johan & Levi), dove, pur biasimando i lestofanti, non impedisce che i lettori ne subiscano il fascino, come accadeva col visconte di Valmont o con la Marchesa de Merteuil. E in effetti quale repertorio delle vite dei falsari il libro è delizioso: Icilio Federico Joni (1866-1946), che ingannò Berenson e si mise a capo di una masnada di ciurmatori della quale facevano parte Igino Gottardi, Gino Nelli, Umberto Giunti, Bruno Marzini e Arturo Rinaldi; Lothar Malskat (1913-1988), che, chiamato assieme a Dietrich Fey per il restauro della Marienkirche di Lubecca, non si limitò a ripristinare gli affreschi danneggiati ma ne creò di nuovi disseminandoli di burleschi indizi della sua menzogna; Otto Wacker, creatore di presunti Van Gogh, che per primo venne smascherato dalla scienza; e ancora Han van Meegeren (1889-1947), pittore di falsi Veermer, le cui imitazioni furono credute da Göring, e Ken Pereny (1949), che dipingeva minori dell’Ottocento per non farsi scoprire, riproducendo più lo stile di un’epoca che quello di uno specifico artista.
Charney ha provato a inserire dei criterio d’ordine fra queste variopinte figure da mazzo dei tarocchi, distinguendo i falsari sulla base del loro movente come in un processo giudiziario. Si hanno perciò il Genio, l’Orgoglio, la Vendetta, la Fama, il Crimine, l’Opportunismo, il Denaro, il Potere. È evidente, tuttavia, come queste categorie, appena enunciate, lascino il tempo che trovano in un libro il cui autore, magato com’è dal suo materiale poliziesco, si mostra interessato all’affresco di un mondo di connoisseurs, commercianti e conservatori castigato per la sua albagia, a una sorta di Fiera della vanità del capitalismo artistico, assai più che alla descrizione psicologica dei tipi più comuni di contraffattore di opere d’arte. Certo, Charney sfiora qui e lì il nodo lirico di alcune di queste anime, come quella di Alceo Dossena che morì indigente nel 1937 dicendo di se stesso «Sono nato in quest’epoca, ma con un’anima, un gusto e una sensibilità più vicini al passato che al presente», ma esita a scioglierlo per non abbandonare quel tono d’inchiesta brillante che gli è congeniale. Così, quando delinea la figura di Meegeren, che «per reazione al fallimento della sua carriera dichiarò guerra al mondo dell’arte», è il carattere generale a essere delineato più che il particolare: nelle parole di Charney v’è quanto basta per farne l’identikit, poco più.
Ancora, qui e lì, si osserva qualche limite nello sguardo dell’autore, che pure ha mordente e un’alta competenza tecnica (come mostra l’impeccabile Glossario dei metodi scientifici di autenticazione, posto in apparato al libro), ed è laddove si distacca dalla cronaca accattivante degli stratagemmi furfanteschi per discutere su quel che sia appunto quest’arte del falso. «Quando i romani si innamorarono dell’arte greca, dopo il 212 a.C. – scrive – la frenesia con cui cercarono di accaparrarsi pezzi pregiati andava di pari passo con la genuina preoccupazione per l’autenticità degli stessi». I falsi avrebbero accompagnato la storia dell’uomo: false le reliquie fortunosamente trafugate dai recessi dell’Oriente, falsa la Donazione di Costantino, falso il Cupido dormiente di Michelangelo, che fu acquistato per marmo antico da Raffaele Riario, pronipote di Papa Sisto IV, giacché Mundus vult decipi, ergo decipiatur: come a dire, alla maniera di Verdi nel finale del Falstaff: «Tutto il mondo è burla!».
Ma il Cupido dormiente di Michelangelo, al pari dei Dürer di Luca Giordano, sono quasi delle celie che si inseriscono nella pratica di copiare i grandi e non possono corrivamente associarsi ai falsi di Joni e della sua scuola, sebbene, negli uni come negli altri, gli artisti avessero voluto «dimostrare di essere geni dell’arte», d’una bravura non inferiore a quella dei maestri. Nel mondo classico si producevano, è vero, dei falsi, ma ciò non toglie, come scrisse una volta Jean Clair, che «la nozione di falso nell’arte è nata in realtà dall’estetica stessa della modernità, e che parlare di falsi per delle opere di epoche anteriori è in un certo senso un anacronismo».
Nei punti in cui si solleva dalla sua materia, insomma, il libro perde un po’ della sua incisività per acquistare un certo non so che di vagamente generico, come quando afferma che «esiste senz’altro un’arte del falso, così come esiste un’arte delle truffe e degli inganni che fanno apparire un’opera più preziosa di quanto non sia in realtà. Ma i falsari sono perlopiù artisti falliti a cui manca qualcosa per essere definiti grandi». Cosa sia questo «qualcosa» e cosa significhi essere «grandi» non viene detto. O ancora, quando affronta il caso di Pitxtot, discepolo e forse contraffattore di Dalí, il cui «stretto rapporto di vicinanza personale» col maestro «portò alcuni conoscenti di Dalí a pensare che proprio a partire da quella data Pitxot avesse cominciato a dipingere al posto suo, autorizzato dall’amico, conscio dell’esaurirsi della propria forza artistica», Charney si interroga: «se Pixtot lavorava per conto di Dalí, realizzando dei Dalí, questi dipinti dobbiamo considerarli degli originali o delle contraffazioni?». E la cosa cade lì.
Ma a queste domande L’arte del falso non sembra volesse realmente rispondere. Lo stile di Charney ha ritmo, smalto. Quando descrive le tecniche della contraffazione, la vanità dei collezionisti, la prosopopea dei conoscitori si sente lo scatto dell’ottima penna giornalistica. Non chiediamogli troppo. Il taglio delle biografie è preciso, l’illustrazione dei fatti avvincente, la conoscenza della materia indiscutibile (Charney è fondatore e presidente di ARCA, l’Associazione per la ricerca dei crimini contro l’arte). Tanto più che il volume è ottimamente stampato.
Chi voglia una riflessione sull’arte del falso non troverà qui molto. Questo libro si deve scorrere con l’occhio d’uno sceneggiatore che voglia girare un film alla De Palma o alla Scorsese. O di uno scrittore che intenda tracciare, alla Edgardo Franzosini, la vita di un raté.

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