Vita da asceta sul pilastro
William Burges, San Simeone stilita, incisione, 1861, Londra, Victoria & Albert Museum, courtesy Giulio Einaudi editore
Alias Domenica

Vita da asceta sul pilastro

Agiografia: gli Stiliti La singolare pratica fiorì in Siria, secoli V-VII. Attraverso le biografie bizantine la indaga Laura Franco: "Al di sopra del mondo", saggio Einaudi
Pubblicato 12 mesi faEdizione del 22 ottobre 2023

In Cristianesimo bizantino (Adelphi, 2015) il dadaista tedesco Hugo Ball osservava: «Non riusciamo più a immaginare l’effetto conturbante che una personalità come Simeone Stilita esercitava sui suoi contemporanei». Sì, lo stesso uomo che aveva scritto la poesia fonetica Gadij beri bimba (poi musicata da Brian Eno e David Byrne) e, vestito con mitra e piviale di cartone, al Cabaret Voltaire di Zurigo, aveva recitato versi del tipo «großiga m’pfa habla horem» oppure «schampa wulla wussa olobo» o ancora «wulubu ssubudu uluwu» (dalla lirica Karawane), appare all’improvviso folgorato dai testi mistici bizantini. Nel 1924 lui che era nato in una famiglia cattolica decide di raccontare le vite di tre santi – Giovanni Climaco, Dionigi l’Areopagita e, appunto, Simeone – mettendo in rilievo il rapporto tra cristianesimo, gnosi e «stile arcano». D’altra parte, in Fuga dal tempo (Mimesis, 2016) Ball aveva dichiarato sardonicamente: «Quando mi imbattei nella parola Dada, venni chiamato due volte da Dionigi Areopagita. D.A. D.A.». Non poteva in nessun modo essere un caso.

Con Al di sopra del mondo Vite di santi stiliti (Einaudi «Saggi», pp. XIV-256, € 28,00) – in maniera meno eccentrica, ma comunque suggestiva – Laura Franco analizza le biografie bizantine che dànno conto di «una pratica ascetica assai particolare»: essa consisteva nello stare allampanati alla sommità di una colonna, in perpetua orazione. «I monaci che si cimentarono in questa bizzarra disciplina erano detti “stiliti”, dal greco stylos, cioè appunto colonna». La Siria era all’epoca un «immenso crocevia» di conflitti politici, culture e religioni: lo stilitismo, che ha la sua fioritura tra il V e il VII secolo, nasce proprio nel crogiuolo della complessa spiritualità siriaca, i cui asceti erano noti – almeno stando alla Storia dei monaci della Siria redatta da Teodoreto di Cirro – per sistemi di autopurificazione alquanto fantaisiste (probabilmente per tale ragione la pratica non si diffuse in Occidente).

Il primo stilita, l’«inventore», fu Simeone il Vecchio, il quale salì su un pilastro e – calvinianamente – non scese più. Questo severissimo sprezzatore della dimensione corporea, tutto dedito all’imitatio Christi, dopo aver superato prove sconcertanti, nel 412 inizia il suo apprendistato in un crescendo vertiginoso di resistenze fisiche e spirituali. Secondo il biografo Antonio, «Simeone fu colpito da un tumore in una gamba, che imputridì velocemente, ma il santo, anziché accasciarsi, resistette stoicamente in posizione eretta su un piede solo per due anni». È d’obbligo l’interrogativo: perché l’esercizio dell’ascesi deve prevedere proprio lo stylos? «La singolarità della condotta di Simeone – prosegue Laura Franco – e lo stupore che suscita negli osservatori mirano a risvegliare gli animi dal torpore che li opprime, spingendoli a glorificare il Signore, e in alcuni casi a convertirsi». È quindi un netto richiamo contro l’indolenza. E, per di più, va considerata la densità della dimensione simbolica: «La funzione cultuale del pilastro o della colonna si può assimilare a un concetto fondamentale negli studi di storia delle religioni, quello dell’axis mundi, l’asse che indica il centro del mondo e funge da luogo di congiunzione fra terra e cielo».

Simeone, autore di svariati prodigi, fecondo taumaturgo, frequentemente interpellato per questioni di carattere politico e militare, era probabilmente uno strenuo difensore dell’ortodossia calcedoniana (legata alla doppia natura, umana e divina, di Gesù), contrario dunque al monofisismo dell’archimandrita greco Eutiche. E svolgeva sovente il ruolo di intermediario con personaggi di primo piano quali l’imperatore, l’imperatrice e il prefetto del pretorio, «ma si preoccupava anche della condotta morale delle piccole realtà rurali nei pressi del monastero, giungendo a interessarsi delle questioni più minute, come per esempio la produzione di cetrioli di un minuscolo appezzamento di terra». Oltre Simeone il Vecchio, il catalogo prosegue con Daniele «il consigliere dell’imperatore», Simeone il Giovane «l’enfant prodige della colonna», Alipio «lo stilita amico delle donne», Luca diviso tra «la milizia terrena e celeste», Lazzaro di Galesio «fondatore di monasteri», assieme ad altri anacoreti e ai santi dendriti (Marone, Davide di Tessalonica, Paolo di Qentos e Giovanni di Edessa).

Se le colonne potevano avere «dimensioni variabili», perché in genere i religiosi «si trasferivano progressivamente su pilastri sempre più alti, in una sorta di ascensione mistica», era la funzione tout court dello stilita, «eremita solo per metà», a segnalare un impatto sociale fortissimo, «sotto la cui guida si formavano comunità monastiche organizzate» (risiedenti nei cosiddetti mandra, ovvero in spazi adiacenti allo stylos). Insomma, quella di Alipio o Lazzaro è «un’esibizione pubblica di santità» a tutti gli effetti. «Un impegno di fronte a Dio ma anche nei confronti della collettività a cui appartiene, e su di lui grava una responsabilità enorme: è sempre visibile, come un faro o, per usare un’espressione coniata da Teodoreto a proposito di Simeone, come una fiaccola della fede collocata su un candelabro».

Effigiati in bassorilievi, nelle eulogie (reliquie e ampolle contenenti olio santo), nei codici miniati (tipo il Menologium Basilii, conservato nella Biblioteca Vaticana), nella decorazione musiva della basilica di San Marco a Venezia e persino in una delle centotrentacinque guglie che ornano il duomo di Milano, gli stiliti erano straordinari performers, capaci di migliaia di genuflessioni quotidiane, di suscitare conversioni di massa, di attirare giornalmente una quantità smisurata di pellegrini (tra cui santa Genoveffa di Parigi, con la quale – secondo Ball – Simeone il Vecchio «è stato probabilmente in rapporto per via estatica»).

Strano a dirsi, nel caleidoscopico mondo moderno e contemporaneo abbiamo diverse rappresentazioni dello stilismo: da Konstantinos Kavafis a Enrico Nencioni, da Rainer Maria Rilke («fuggì dal lezzo della folla issandosi, / con mani intirizzite su un fusto di colonna») a Kostas Varnalis, sino all’«ironica sufficienza» di Anatole France. E poi c’è l’onirismo paradossale di Simón del desierto, il mediometraggio diretto da Luis Buñuel (1964): «Il protagonista, interpretato dall’attore Claudio Brook, è un emulo del primo stilita. Lo vediamo in cima a una colonna, su una piattaforma circondata da quattro aste e una corda che rimanda a un ring, impegnato in estenuanti combattimenti col demonio, impersonato dall’avvenente Silvia Pinal. Il demonio alla fine prevale e lo trasporta su un aereo, in volo nello spazio e nel tempo; viene catapultato nella New York degli anni sessanta, in un rumoroso night club, dove Simón, vestito come un beatnik, fuma la pipa con aria perplessa, mentre Pinal si scatena in uno sfrenato rock ’n’ roll, al suono di un brano dal titolo Carne radioattiva». E non dimentichiamo la statua kitsch nel Pap’occhio di Arbore (1980), nonché Vertigo, l’esibizione artistica dell’illusionista americano David Blaine. Depositato a Bryant Park (New York) da una gru su un pilastro di trenta metri, Blaine «è rimasto in piedi, senza dormire, per trentacinque ore (pare senza cinghie di sicurezza), coinvolgendo nella sua spettacolare sfida migliaia e migliaia di spettatori, accalcati sotto la colonna col naso all’insù».

Ma esiste un ultimo stilita? Sì, è Maksim Qavtaradze, monaco georgiano dalla barba nivea, con il «volto solenne, ieratico come quello di un antico patriarca». Egli risiede nelle montagne del Caucaso, «in cima a una rupe a forma di pinnacolo, sullo sfondo di un paesaggio di stupefacente bellezza, a circa quaranta metri dal suolo, vicino al cielo e collegato con il resto del mondo solo da una scala ripidissima, che percorre una volta alla settimana». Per dirla dadaisticamente con il sempiterno Ball: «Zimzim urallala zimzim urullala zimzim zanzibar».

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento