Virtuosismi stilistici per Cinzia
La costituzione critica del testo di Properzio richiede un estremo esercizio di acume da parte dello studioso che con coraggio vi si accinga, a causa delle vicissitudini intricate della tradizione manoscritta. Ora Paolo Fedeli, la cui attività di ricerca filologica è ben nota per vastità e profondità di interessi, mette a frutto i suoi robusti contributi in materia nell’introduzione e nella limpida nota al testo dell’edizione delle Elegie da lui stesso curata per la Fondazione Valla (primo volume, Libri I-II, Mondadori, pp. LXXXIX-416, e 50,00).
Properzio scrisse verosimilmente di propria mano le prime stesure delle sue elegie, solo in un secondo momento ricorrendo alla dettatura; venuto da una famiglia in dissesto dopo le guerre civili, riuscì a sopperire alle esigenze della diffusione delle sue opere grazie all’aiuto di illustri patrocinatori, prima Lucio Volcacio Tullo, come lui originario di Assisi, poi, a partire dal secondo libro, Mecenate in persona. Le elegie vedono così la luce, a partire dal 29/28 a.C., data di pubblicazione verosimile della Monobiblos, la prima, autonoma, sezione, fino ad arrivare agli anni fra il 20 e il 16 a.C., epoca dell’uscita del IV libro, compiuto poco prima della morte, che lo colse non molto più che trentenne.
Ovidio esule a Tomi lo menziona come ricordo dell’atmosfera di Roma, in una sorta di canone sentimentale e nostalgico della poesia augustea. Marziale, Giovenale e Stazio, fra età domizianea e traianea, lo citano a vario titolo, come oggetto di dono raffinato, come poeta che risente della fascinazione di figure femminili suadenti e corrotte, come contraltare latino, insieme a Tibullo, dei poeti elegiaci alessandrini. Il celebre e cerebrale sofista, stregone e romanziere della tarda età antonina, Lucio Apuleio, lo include nella sua pruriginosa indagine sui nomi originali delle donne amate dai poeti della latinità «aurea», identificando come Hostia la Cinzia, volubile e tormentata dark lady, indiscussa protagonista della maggior parte del canzoniere properziano, dall’elegia d’esordio – in cui la si canta come prima ad aver acceso la vera passione del poeta –, ai carmi del discidium, della separazione definitiva.
Consonanza con l’amor cortese
Con la tarda antichità, dilaniata fra opposizione cristiani-pagani, misticismo, mediazione culturale, fanatismo, compromesso, moralismo, la fortuna di Properzio viene declinando, via via relegata nelle sporadiche citazioni dei grammatici: il suo Fortleben, cioè la sua sopravvivenza, rischiò di arenarsi fra le paludi storiche dell’alto medioevo, per poi riaffiorare in Francia, nella seconda metà del XII secolo, epoca in cui il poeta di Cinzia è imitato, insieme a Ovidio, nell’anonima commedia elegiaca latina medievale Pamphilus. A riattivare l’influenza di Properzio sulla poesia europea è la sua intima consonanza con le tematiche dell’amore cortese; è ai secoli XII-XIII che risalgono i più autorevoli e antichi manoscritti dei quattro libri delle elegie: personaggi come Francesco Petrarca (copista colto e possessore di un codice oggi perduto), Poggio Bracciolini, Coluccio Salutati sono coinvolti nella tradizione e nella riscoperta definitiva, in età rinascimentale, dell’opera.
L’avventurosa sopravvivenza dei codici che ne tramandano il testo non è l’unico elemento a rendere difficile la sistemazione critica dei versi di Properzio. Lo stesso tono stilistico dei suoi distici, e la struttura complessiva dei componimenti, rendono ancora più impervio il cammino del filologo e del traduttore. Properzio definisce se stesso il Callimaco di Roma, riferendosi per lo più al quarto libro. In realtà la poetica dell’elegiaco umbro si fonda in tutta la sua opera su una ricerca stilistica raffinata, una sofisticatezza che si traduce non solo nella scelta di exempla mitologici rari o relativamente poco frequentati, ma anche in una sintassi assai elaborata, immagini estreme, nessi aggettivo-nome ardui e preziosi: soprattutto, la tendenza (famigerata fra gli editori critici) agli esordi ex abrupto, che sembrano collegare il discorso poetico palese e verbalmente articolato a una sorta di poesia non scritta, o premessa ideale, che l’autore volutamente occulta al lettore, o vuol lasciar presupporre, con i suoi ergo, et merito, che rendono spesso opaco il confine fra elegia ed elegia. Chi abbia appena un po’ di frequentazione della poesia antica e delle sue sopravvivenze formali nella modernità e nel mondo contemporaneo, ha ben presente come tanta complessità, questo stile elaborato e grandioso che gli antichi chiamavano kharaktèr megaloprepés («timbro sublime»), abbia trovato sponde in esperienze poetiche diversissime fra loro, da Foscolo all’Hommage to Sextus Propertius di Pound, una versione-riscrittura che a suo tempo i latinisti americani attaccarono con virulenza.
Una trasparenza quasi didascalica
La traduzione di Paolo Fedeli, che fra l’altro, come si è detto, si giova di un percorso pluridecennale cominciato nel 1965 proprio con il quarto libro, si connota come una sistematica resa di servizio, i righi di prosa, non scevra da qualche pointe di modernizzazione – si sarebbe tentati di dire, di domesticazione – del dettato poetico properziano, allo scopo di rendere più trasparente possibile, di una trasparenza quasi didascalica, il rapporto fra testo latino e versione italiana. Considerando le difficoltà insite nell’originale, al traduttore di Properzio si aprono infatti le due consuete opzioni, fra resa del testo orientata sul target, sul lettore contemporaneo, e resa orientata sulla fonte. Per i quattro libri di elegie, una traduzione source-oriented comporterebbe il tentativo di mantenere, per quanto possibile, le ambiguità e i virtuosismi del testo originale, compatibilmente con le derive stilistiche implicite della lingua d’arrivo. Fedeli sceglie una traduzione più target-oriented, esplicativa.
Basti pensare, a titolo d’esempio, alla versione del distico finale dell’elegia I,12: mi neque amare aliam neque ab hac desistere fas est: Cynthia prima fuit, Cynthia finis erit. Questi versi letteralmente suonerebbero «A me né amare un’altra né da lei desistere è dato: / Cinzia fu la prima, Cinzia sarà la fine». Nel testo originale abbiamo una variazione significativa fra i due membri del verso conclusivo: Cinzia fu la prima amata dal poeta, con ripresa del primo verso dell’elegia iniziale; in Cinzia egli vede il termine e lo scopo della sua esistenza, e oltre lei nulla esiste. Così Properzio stesso concepisce la sua donna, e ribadirà anche in altri luoghi il concetto che la vita (e la morte) dell’amato sono termine e fine esistenziale anche dell’amante: lo farà in modo estremo nell’elegia III,13 rievocando il mitico suicidio di Evadne sul rogo del marito Capàneo e intuendo la sua analogia antropologica con la sati, il barbarico sacrificio induista della vedova. Così dunque la lettera del testo. Ma per i versi 19-20 dell’elegia I,12 Fedeli restituisce in italiano il testo (corsivo di chi scrive ndr) con: «A me non è lecito né amare un’altra né desistere dall’amore per lei: / Cinzia è stata la prima, Cinzia sarà anche l’ultima». Il lettore si trova così davanti un messaggio più quotidiano, più diretto, più consueto, più vicino alla sua attesa ordinaria. L’espressione di un esegeta scrupoloso e analitico, che chiosa per il lettore comune.
Questo spirito di servizio esplicativo, di ricerca della chiarificazione del testo anche a costo di diluirne l’espressività, dà le sue prove migliori sia nel commento, agile ed esauriente, che guida chi si avvicina a Properzio attraverso la fitta rete dei suoi richiami alla tradizione poetica e mitologica, sia nell’apparato a piè di pagina, che compendia i risultati di un lavoro critico-testuale di prim’ordine, da studioso di lunghissimo corso dei tesori dell’elegia latina. Nella sua aurea limpidezza filologica questo Properzio è dunque da considerarsi un possesso irrinunciabile non solo per la biblioteca dell’antichista di mestiere, ma anche per chi voglia andare oltre la superficie dei classici, cercando di toccarne le corde più intime.
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