Virginia Mayo, diva dimenticata
Il ritratto «La più bella del mondo» negli anni quaranta, dal vaudeville alla spalla comica, dai western ai noir accanto ai grandi di Hollywood
Il ritratto «La più bella del mondo» negli anni quaranta, dal vaudeville alla spalla comica, dai western ai noir accanto ai grandi di Hollywood
Identificata lungo gli anni Quaranta come «la bionda più bella del mondo», ben prima del ciclone Marilyn Monroe che surclassò tante «rivali» ossigenate, Virginia Mayo si colloca in una posizione ambigua per lo spettatore abituato a osannare precise figure dello star system hollywoodiano. Raggiunto il successo nell’era capitanata dalla pin-up Betty Grable, Mayo catturò il pubblico per due decenni non solo grazie al fisico perfetto, ma soprattutto per quel suo sguardo obliquo e penetrante (occhi verde chiaro contraddistinti da un lieve strabismo, ovvero sua cifra distintiva) che le donò una sensualità atipica capace di variare con nonchalance tra fatalità e spumosità.
Nata in un’ottima famiglia il 30 novembre 1920 a St. Louis (Missouri), figlia di Luke e Martha Jones, Virginia mosse i primi passi artistici a sei anni grazie alla zia, proprietaria di una scuola di recitazione. Appena diciottenne venne notata, durante uno spettacolo in cui diede prova di possedere anche ottime doti di danzatrice, da Andy Mayo e da Nonnie Morton, star del vaudeville, coi quali intraprese per circa tre anni numerose tournée teatrali presentandosi al pubblico come i Mayo Brothers. Ed è proprio durante una rappresentazione a Broadway che Virginia, già trasformata in Mayo abbandonando così il più convenzionale Jones, attirò le attenzioni del produttore Samuel Goldwyn. Era il 1944 e la ragazza «dalla pelle di panna e pesche» ottenne una scrittura come «Goldwyn Girl» prima del debutto ufficiale con Il pirata e la principessa, realizzato lo stesso anno, in cui recita accanto a Bob Hope.
Successivamente, tra il 1945 e il 1948, Virginia divenne spalla comica del mattatore Danny Kaye in L’uomo meraviglia, Preferisco la vacca, Sogni proibiti e Venere e il professore (quest’ultimo diretto da Howard Hawks); ma nel 1946 riuscì a svincolarsi per poco da ruoli preconfezionati con I migliori anni della nostra vita di William Wyler, grazie al personaggio della moglie fedifraga ed egoista sposata a Dana Andrews. A questa prima incursione «seria», seguirono poi altre prove affini e ben riuscite in generi come il western, il noir e il dramma in costume: venne diretta quattro volte da Raoul Walsh (Gli amanti della città sepolta, La furia umana, Le avventure del capitano Hornblower, Sabbie rosse) e due da Jacques Tourner (La leggenda dell’arciere di fuoco, L’alba del gran giorno), ritrovandosi a lavorare con partner imponenti e di cui rilascerà solo dichiarazioni entusiastiche riguardo alle esperienze vissute con loro: James Cagney era «favoloso, l’uomo più dinamico mai apparso sullo schermo»; Alan Ladd era «bellissimo, affascinante, gentile»; Kirk Douglas «era a posto, ma solo troppo intenso per me»; Gregory Peck era «fantastico, lui e Ronald Reagan possedevano lo stesso carisma». L’unico a non essere entrato nelle sue grazie fu Jack Palance perché «era una gran seccatura d’attore, non mi è affatto piaciuto affiancarlo in Il calice d’argento».
All’inizio degli anni Cinquanta la sua carriera tornò per poco sui passi della commedia musicale in cui riassaporò le gioie del vaudeville degli inizi grazie ad alcuni titoli minori come Femmine bionde, L’amante di ferro, Virginia dieci in amore, anche se la sua voce venne sempre doppiata nelle parti cantate. Poi, a metà anni Cinquanta, il western divenne il genere preponderante della sua filmografia, condividendo il titolo di «regina del Technicolor» con le «rosse» Maureen O’Hara, Rhonda Fleming e Arlene Dahl; e con sporadici ritorni al registro comico, come in L’inferno ci accusa di Irwin Allen (noto per essere l’ultimo film in cui compaiono tutti e tre i fratelli Marx pur non avendo scene in comune).
Biondissima e svaporata all’occasione, fatale quando occorre; volitiva ma dolce, intrigante ma umana, Virginia Mayo rimane nome scomodo da incasellare all’interno della sterminata galleria attoriale di quegli anni e forse questo fu, per lei, arma a doppio taglio: se da un lato poteva godere di maggiore libertà contrattuale in quanto mai assurta al rango di diva-soldato fedele alle aziende-studio, dall’altro finì ostracizzata dalle logiche (spietate, grette, ingrate, insindacabili) dell’industria hollywoodiana. E infatti, finito il periodo di popolarità, da inizio anni Sessanta le sue apparizioni sul grande schermo si diradarono a qualche comparsata tra produzioni infime (una manciata di brutti western e diversi horror a zero budget) e serie televisive di successo diventate dimore di conforto per vecchie glorie in pensione.
Scomparsa a 84 anni, il 17 gennaio 2005, a seguito di un’insufficienza cardiaca, oggi il suo nome giace nel dimenticatoio, perché la sua immagine è sempre rimasta ai margini delle celebrazioni cinematografiche. Chissà, magari qualche festival o rassegna internazionale prima o poi si (ri)accorgerà di lei, un po’ come è avvenuto alla Berlinale di quest’anno con la deliziosa retrospettiva «No Angels», dedicata a tre fuori classe anticonvenzionali degli anni Trenta e Quaranta: Carole Lombard, Mae West e Rosalind Russell, le quali sono finalmente tornate a (ri)vivere sotto forma di celluloide davanti ai nostri sguardi finalmente nel buio della sala (e dopo alcuni omaggi-lampo – fulminei sì, ma sentiti – partoriti da qualche critico innamorato della loro anima ironica).
Probabilmente un tributo a Mayo non avverrà a breve (magari non avverrà mai), così come non avverrà a breve quello per Vera Miles, per Jean Peters o per Claire Trevor: tutti nomi accomunati da un breve e fulgido cammino di successo bloccatosi all’improvviso, vuoi per imposizioni, scelte, condizioni fisiologiche o destino del caso; ed ecco che lo status di Rosalind Russell, autodefinitasi a suo tempo «damigella» di Hollywood, diventa manifesto rivelatore per tutte quelle interpreti distanti dalla prima linea popolata dai colossi divistici entrati nell’immaginario comune. Terminata la proiezione, i nomi di secondo piano (ma a volte pure quelli di primo) ritornano nella polvere dell’oblio cinematografico. Certo, per molti le icone irraggiungibili sono e rimangono ben altre, ma chi l’ha stabilito che tutti devono avere occhi solo per le spose e non per le damigelle?
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento