Virgilio Sieni, il processo poetico di un corpo a corpo con l’arte
Intervista Parla il danzatore e coreografo, che a Santarcangelo Festival ha portato in piazza le sue «Quattro lezioni sul corpo politico e la cura della distanza»
Intervista Parla il danzatore e coreografo, che a Santarcangelo Festival ha portato in piazza le sue «Quattro lezioni sul corpo politico e la cura della distanza»
Mettere in opera il corpo è il compito che da tempo si è dato Virgilio Sieni. Nel lavoro con la sua compagnia ma anche nella dimensione pubblica in cui ha deciso sovente di trasferirlo, in un moltiplicarsi di incontri, seminari, laboratori. Come le Quattro lezioni sul corpo politico e la cura della distanza proposte in piazza a Santarcangelo Festival, che dietro un titolo programmatico e d’occasione nascondono altrettanti corpo a corpo (letteralmente) con una serie di opere pittoriche cruciali della nostra storia artistica, dal Battesimo di Piero della Francesca che sta a Londra, alla National Gallery, a due diverse versioni della Cena in Emmaus del Caravaggio, agli sguardi di Giorgione e Tiziano che si intrecciano a Palazzo Pitti. Fare esperienza delle forme della trasmissione, della partecipazione e della visione, sono queste le parole chiave.
Eccolo dunque al centro del largo perimetro formato dagli spettatori, nello spazio condiviso con una ventina di allievi. L’ultima lezione, quella cui abbiamo assistito, è dedicata all’incontro con due opere di Antonello da Messina, l’Annunciata famosissima di Palazzo Abatellis, a Palermo, e il Cristo in pietà finito al Prado di Madrid. Parte da un gesto della mano dell’Annunciata per passare a quella dell’angiolino triste della Pietà, e quei gesti sospesi nei dipinti si animano nelle sue mani, si moltiplicano all’unisono in quelle degli allievi invitati a ripeterli insieme a lui. Poi è l’immagine del Cristo a entrare in questo gioco di gesti, passando attraverso un confronto con il dipinto di Giovanni Bellini sul medesimo tema, per misurare la variazione climatica del paesaggio. Quando una sequenza è montata, la si prova di fila su un brano musicale di Robert Ashley di sapore minimalista. E la lezione continua intrecciando il concetto di tattilità dello spazio all’oscillazione del tallone che determina il movimento dell’intero corpo. Alla fine quasi inavvertitamente (o forse no, perché ne abbiamo avuto consapevolezza per tutto il tempo) abbiamo assistito alla nascita di una piccola coreografia, cioè allo sviluppo di un processo creativo che non cerca l’imitazione, la rappresentazione, ma la trasmissione più segreta di un pensiero.
Più tardi, questi temi ritornano tutti nella nostra conversazione. Che parte inevitabilmente dall’incontro a Palermo con Mimmo Cuticchio, continuatore e innovatore della tradizione dei pupi siciliani, consacrato dall’ultimo lavoro, Nudità, che li vede in scena insieme.
Come è nata questa fascinazione?
Anni fa, a Marsiglia, avevo lavorato con due pupari della famiglia Mancuso. Avevo creato una coreografia sfruttando il fatto che come opranti erano in grado di fare gli stessi movimenti con le marionette senza rendersene conto. Fu molto interessante e mi rimase l’idea di continuare questa esperienza. Avevo il sogno di creare una scuola sul gesto e la marionetta a Palermo. Poi a Palermo nel 2016 incontrai Mimmo Cuticchio e cominciammo a pensare come mettere insieme i nostri lavori. Il mio scopo fin dall’inizio era di poter lavorare con lui sull’ossatura della marionetta, lo scheletro di legno, il suo movimento. Il primo lavoro realizzato era molto ricco di presenze. Mimmo mise in scena almeno quindici personaggi. Però il percorso era molto bello perché si apriva una dimensione di laboratorio, con una ventina di studenti con cui si portavano avanti dei piccoli studi sull’idea di gravità, l’idea di sospensione, di attesa. Fatto sta che dopo tre anni in scena siamo rimasti io, Mimmo e lo scheletro della marionetta, in un lavoro in cui Mimmo non proferisce parola se non alla fine cinque minuti del suo cunto. E ci raccontiamo con delle variazioni su un canovaccio sottile. Mimmo danza per cinquanta minuti, muovendo la marionetta. È stata una bella ricerca, anche lui si è riconosciuto, forse anche ritrovato. Non sto parlando di un lavoro fisico ma di un lavoro dove gestisce una dimensione non solo di narrazione del pupo, legato a degli accadimenti che sono leggermente diversi da quelli che può fare l’essere umano. Leggermente perché la marionetta si muove come un essere umano, ha le articolazioni, ha lo sguardo. Però c’è quel leggermente diverso che ci sposta continuamente. La marionetta ci mette in collegamento per cui la nostra diventa una triade. L’idea è di continuare a svilupparla per capire se si può trasferire a un concetto di cammino popolare, in cui si coinvolgono molte persone con le marionette.
Ma c’è stato anche un incontro con la città?
A Palermo mi sono avvicinato anche perché ho fatto un lavoro con i cittadini in alcuni luoghi storici. Ho lavorato in quattro o cinque oratori del Serpotta (Giacomo Serpotta è stato uno scultore e soprattutto geniale stuccatore a cavallo fra Sei e Settecento siciliano, ndr) partendo da San Lorenzo. Per renderli delle piccole officine. Con piccoli gruppi di cittadini abbiamo creato delle azioni coreografiche, lavorando sul corpo. Allo stesso tempo portavamo avanti questa idea di scuola, intendo una quindicina di giorni in cui parlavamo di tutti questi temi, dalla marionetta alla gravità e così via. A me interessa molto creare nelle città delle situazioni in luoghi desueti. Davanti a un palazzo in piazzetta dei Vespri mi dicevo sempre che era la casa dove vorrei abitare. Un giorno per curiosità salgo le scale di un interno, c’è una porta con un campanello e una targhetta, Tessuti Parlato. Mi aprono e mi trovo dentro un negozio all’ingrosso però con soffitti decorati, scaffalature in legno, lampadari di Murano. Così diventammo amici, chiesi se potevano mettere a disposizione questo spazio per dei laboratori ed è andata a finire che è diventato uno dei nostri luoghi di riferimento a Palermo.
Così sei arrivato davanti all’Annunciata di Palazzo Abatellis.
Si è creato spontaneamente un percorso molto interessante fra gli oratori del Serpotta, la ditta Parlato, Palazzo Abatellis, dove sono nate delle azioni coreografiche. Quando un artista lavora contemporaneamente su più opere, accade sempre un trasferimento inconscio fra l’una e l’altra. Davanti all’Annunciata di Antonello mi sono soffermato sulla postura delle mani, su come reagisce il polso rispetto al tocco dei polpastrelli. La mano sinistra dell’Annunciata si sta muovendo come per spostare il vestito, mentre la mano destra è molto classica, fa un gesto che dal basso si sta aprendo. Se poi guardi l’angiolino che sorregge il Cristo in pietà che sta nel Museo del Prado, vedi che la sua mano destra ha iniziato un percorso per andare a sostenere il braccio del Cristo, i polpastrelli sono richiamati da una presa. Se lasci proseguire questo movimento, ritrovi esattamente la posizione del braccio del Cristo appoggiato sul piedistallo, mentre la mano sinistra è aperta totalmente abbandonata. La mano sinistra dell’angiolino non la vedi ma essendo piccolino per forza di cose si sta appoggiando al corpo di Cristo. Se prosegui all’indietro il gesto della mano sinistra del Cristo arrivi alla mano dell’Annunciata. È bellissimo questo percorso fra le due mani, sono affascinato da queste cose. Quando vado a vedere il Battesimo di Piero alla National Gallery, piango come a vedere un vecchio amico. Io poi li pratico quei gesti lì, e mi chiedo cosa avviene in me spettatore quando vedo queste opere. Dentro il corpo senti che cominciano a dislocarsi queste posizioni, senti che ti si muovono le braccia. È interessante perché tutte le ricerche neurologiche portano lì, se fai un movimento e te ne rendi consapevole secondo delle pratiche precedenti, si azionano delle sinapsi che mettono in moto tutti questi processi di decodificazione. E a noi interessano i processi poetici prima di tutto.
Io sono affascinato anche dal Trionfo della morte a Palazzo Abatellis.
Solo la strada per arrivare lì è incredibile. La qualità della luce, il vento che viene dal mare, è una poesia continua. Arrivi lì e ancora per fortuna non è tutto restaurato alla perfezione, c’è ancora un elemento di imperfezione, di fragilità, quando vedi che è curato ma fino a un certo punto. E l’allestimento di Carlo Scarpa è ancora vincente, per la scelta dei colori, la scelta della sobrietà, il concetto di vuoto rispetto alle opere. E bella è l’idea di creare una stanza per il Trionfo della morte. Se fai tutto il percorso da lì, passi dalla luce del cortile alla stanza dei crocefissi che sembra un giardino zen, poi entri nella porticina in fondo e lì ti si apre l’Annunciata, continui a camminare e arrivi al balcone e rivedi dall’alto il Trionfo. È una geografia emozionale. Non poteva che stare a Palermo il Trionfo della morte. Vedi questo cavallo, questi morti, il ritmo che crea che è proprio musicale fra le persone sdraiate in terra, i santi, i peccatori, senti questa percussione che ti sposta continuamente. Però iconograficamente hai questo animale davanti a te fuori da qualsiasi logica. Palermo a volte mi fa questo effetto legato a un substrato emozionale, quasi sempre tragico. E ci metto dentro l’orto botanico che frequento da sempre. È molto particolare per come è stato costruito. Ti porta sempre a considerare la dimensione del mare, la dimensione del sud, dell’accoglienza, dell’umiltà, di un agglomerato urbano quale la Kalsa con i suoi spazi estremamente ampi e assolati. Incanalarsi nelle viuzze attorno a via Alloro è come entrare in una canalizzazione fisica.
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