Virgilio nel laboratorio degli interpreti antichi
Vi sono nella letteratura grandi testi, che meglio si accostano leggendone anche i commentatori. Con tali intermediari, talvolta molto remoti nel tempo, la riflessione si fa più profonda: e c’è anche il piacere di sentirsi parte di una secolare tradizione esegetica, e in essa analizzare questioni, o valutare informazioni. Tale, si sa, è il caso di Dante, se nelle note persino delle edizioni scolastiche si leggono (o si leggevano) richiami all’Ottimo commento e ad altri precoci esegeti della Commedia. Ecco ciò che, già dal titolo, invita a considerare con attenzione Studi su Virgilio e i suoi interpreti di Maria Luisa Delvigo (Forum, Università degli Studi di Udine, pp. 408, euro 25,00).
La consuetudine dell’autrice con il poeta latino è lunga, e i saggi ripresi e ordinati nel volume, in maggioranza recenti, ne sono prova chiara. Accanto all’autore antico stanno appunto i suoi interpreti: ovvero gli esegeti moderni, qui interpellati costantemente (ma senza pedanterie erudite o valanghe bibliografiche), e anche i commentatori antichi. In particolare Servio, il grammatico tardo-antico che di Virgilio scrisse un commento molto ampio, segno di una passione totale per l’autore.
Alle sue pagine i più accorti studiosi sanno di doversi rivolgere con cura: senza di lui non sapremmo forse che la menzione del cadavere di Priamo decapitato sulla spiaggia troiana (Eneide, libro II) allude alla fine di Pompeo (Pompei tangit historiam).
Come accadrà a Dante, Virgilio fu autore prestissimo studiato e commentato: Servio aveva già alle spalle una tradizione non breve, e ancora oggi importante. Dopo di che, certamente egli non è un «collega» (e non solo perché non ha studiato narratologia, e perché non capirebbe, per esempio, il tormentoso dibattito moderno sulle ‘voci’ dell’Eneide…). L’esigenza del commento scolastico condiziona alquanto: ma di fatto il commentatore antico disponeva di libri e notizie altrimenti inattingibili, e per altro talune sue osservazioni sono ancora illuminanti. Con questi strumenti, e con un rispetto del testo che proviene dalla migliore tradizione filologica (dalla Tecnica epica di Virgilio di Richard Heinze, del 1903, e da altri riferimenti, anche italiani), Maria Luisa Delvigo rilegge il suo Virgilio, libera dai gerghi e determinata a inquadrare questioni maggiori o massime con grande chiarezza: «Il progetto… dell’Eneide … propone gli eventi di un lontanissimo passato come il fondamento di tutto il futuro che ne deriverà.
Nella storia di Enea la cominità romana deve poter ritrovare … le cause e i fondamenti della propria civiltà: rituali religiosi, cerimonie civili, pratiche sociali, usanze militari, costumi della vita personale e familiare» (p. 257). Il materiale discusso nei vari capitoli concerne molti elementi di cui il lettore moderno abbisogna per poter recuperare, nella misura del possibile, quei «codici» che il poeta presupponeva, e che per i suoi lettori antichi erano familiari. Ciò vale soprattutto per l’Eneide, cui va la maggior parte dell’impegno critico presente nel libro. Quanto alla necessità di ‘ricostruire’ reticoli, basta ricordare il saggio sui Penati: un elemento che si incontra già nella lettura scolastica, ma che resta in genere poco chiarito: sicché si rischiano esiti simili ai modi di Benjamin F. Pinkerton alle prese con le statuette degli Ottoké di Butterfly («Quei pupazzi? avete detto?» «Son l’anime degli avi!»«Ah, i miei rispetti…»).
L’esegesi bimillenaria di Virgilio si è dovuta confrontare con questioni assai complesse, ora di largo impatto sull’interpretazione del poema, ora, in apparenza, minute: ma ciascuno ricorda la sfida posta da certi sfuggenti ma fondamentali versi di Dante («e’l modo ancor m’offende»), e comprende come le questioni già affrontate dalla filologia virgiliana antica siano ineludibili per un lettore non superficiale. Notevoli sono perciò i dibattiti relativi all’autenticità di questo o quel passo, o al mal definibile stato di incompiutezza dell’Eneide: non sempre l’interpretazione ambisce a giungere, anche solo per indizi, a soluzioni definitive. Ma chiunque comprende che il percorso che serve a valutare se «Quell’io che già tra selve e tra pastori/ di Titiro sonai l’umil sampogna» siano o no parole di Virgilio, rappresenta una prova di metodo di grande rilievo (e finezza), che talora s’avvantaggia anche di una consapevole ars nesciendi.
Altro tema, da rivisitare dopo letture scolastiche talora sterili, è quello dell’originalità di Virgilio: egli seguiva certo la traccia dei suoi modelli (Omero, soprattutto), ma ne ripensava in profondità ogni elemento, e perciò seppe creare un proprio linguaggio dell’epica romana. Lo mostrano, tra tanti esempi, certe sue innovazioni, o scene nuove inserite nel poema: come una regata che occupa il posto che in Omero andava a una gara di corsa o di carri. Ciò non sollecitava solo la perizia poetica: giacché tutti gli eventi che toccano ai troiani esuli, lieti o tristi, sono per Virgilio anche la prova e la prefigurazione del loro grande avvenire. Quindi il carattere «nazionale» del poema risulta dal testo, se è vero, come scrive Servio, che «Virgilio ha celebrato per sommi capi tutta la storia romana dall’arrivo di Enea fino ai suoi tempi» (p. 235). Lo ha fatto, certo, consapevole delle grandi trasformazioni che condussero dal selvaggio Lazio antico alla grandezza del tempo di Augusto, e ha ottenuto il proprio scopo tanto più felicemente, in quanto ha turbato l’ordine cronologico degli eventi, per evitare di scrivere una specie di libro di storia (come Lucano sulla guerra tra Pompeo e Cesare). Ancora, dal confronto con Virgilio e i suoi interpreti, risalta il tema della forma, della parola poetica. Nel Novecento la dissoluzione del linguaggio poetico tradizionale ha reso meno sensibili i moderni a un elemento un tempo centrale, come provano i commenti antichi: ma il lettore consapevole apprende subito quanto lavoro di stile, di dignità, di semantica fosse alla base di versi virgiliani costruiti sulla ricerca anche della parola più ‘giusta’.
Dottrina grammaticale e critica stilistica convergono nello sforzo di render partecipi i lettori moderni delle implicazioni di un testo ricco di volti e voci differenti.
Così il saggio finale studia la riflessione antica sul solecismo: la deviazione involontaria dalla norma linguistica era per gli antichi cosa ben diversa dalla consapevole e «artistica» trasgressione perseguita da poeti o prosatori: impensabile, nella prospettiva di Servio, attribuire improprietà di lingua e stile a Virgilio. E così il volume si conclude con una riflessione sui registri linguistici del latino e il richiamo a una pagina del Satyricon di Petronio (46,1). Echione, convitato alla cena del ricco Trimalcione, rimprovera il silenzio del colto retore Agamennone: questi, non partecipando alla conversazione a tavola, obbliga a prender la parola i poveracci, ben consapevoli di essere inadeguati e di commettere numerosi errori. Così accade effettivamente (e il lettore antico ben avvertiva il peso degli spropositi). La protesta di Echione «vuole farci sorridere, ma non può non farci simpatia, perché fa affiorare … una specie di coscienza di classe del solecismo» (p. 367). Anche la grammatica può dunque farsi, a modo suo, politica?
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