Settembre 1973, siamo all’alba del colpo di stato che ha funestato la storia del Cile. Santiago è scena di rastrellamenti, incarcerazioni, processi sommari. La dittatura non risparmia nessuno e il sospetto serpeggia incontrastato.

ADOLFO RAFAEL COZZI Figueroa e altri due compagni vengono arrestati in un appartamento e, senza che fosse formalizzata alcuna accusa, vengono reclusi nello stadio nazionale della capitale, trasformato in campo di concentramento.

Cozzi rimarrà imprigionato dal 27 settembre all’11 novembre, 46 giorni terribili che ha raccontato in Estadio Nacional (Abbot, traduzione di Luigi Petrella, pp. 120, euro 14). «Lo stadio, quello spogliatoio pieno di uomini in catene, era la rappresentazione della nostra nuova società».

Ogni ambiente dello stadio viene adibito in funzione del nuovo stato di polizia: ci sono gli ambienti di reclusione, dove i carcerati sono ammassati come merce stoccata, ci sono gli ambienti di ricevimento, in cui l’esercito e i prigionieri si incontrano per le operazioni di registrazione e classificazione, soprattutto ci sono gli ambienti dove avvengono gli interrogatori, veri e propri pestaggi, di una crudeltà inaudita, di cui l’autore, testimone e vittima in prima persona, non risparmia la crudezza. «Alcuni vittime, altri carnefici. Ma tutti schiavi, della morte subita e di quella inflitta. A questo eravamo arrivati dopo più di duemila anni di riflessione politica?». Appena entrato nello stadio, davanti agli occhi di Cozzi si impone una visione terrificante: un uomo, appeso a una trave, con un soldato a colpire senza sosta il corpo martoriato e, a ben guardare, ormai morto.

LE TORTURE, che riempiono lo stadio di urla strazianti, sono finalizzate a estorcere nomi, indirizzi, informazioni utili a nuove reclusioni, nuova barbarie. Questo è stato il regime di Pinochet. A colpire è il sadismo al servizio di questo stato di polizia: l’esercito, con pochissime eccezioni, trasformato in una macchina di sofferenza, che risucchia l’anima delle proprie vittime, le riconsegna alla vita svuotate della vita. «Qualcosa mi distanziava definitivamente dal mondo. In un certo senso io ero morto. Come se mi avessero strappato l’anima, estirpato la passione di vivere. La mia disperazione era una tomba vuota, silenziosa e buia che reclamava a gran voce il suo cadavere».

Se la morte non è fisica, poco conta: i prigionieri, accusati di sostenere il governo Allende o anche solo sospettati di simpatie socialiste o comuniste per la presenza di pochi libri compromettenti nella biblioteca di casa, sono trasformati in cadaveri viventi. E se non sono le torture punitive e la violenza degli interrogatori, a uccidere lentamente i prigionieri sono le condizioni bestiali di sopravvivenza. I corpi ammassati in spazi angusti; del pane e dei fagioli come unico pasto quotidiano, roba marcia o poco cotta; bevande alterate col bromuro per sedare gli animi.

La presenza di assistenti sociali e donne della Croce Rossa, lungi dal lenire la brutalità del trattamento poliziesco, si trasforma in ulteriore fonte di pericolo: occhi che spiano, voci che riferiscono, orecchie che, fingendo attenzione e cura, carpiscono informazioni.

MA C’È QUALCHE COSA di irriducibile, che riesce a sopravvivere in alcuni di loro: il senso di solidarietà tra prigionieri, che infonde il coraggio necessario per resistere alle minacce e alle torture senza rispondere alle domande degli interrogatori, senza cedere alle false promesse di salvezza dei carcerieri; la solidarietà che spinge i detenuti a condividere i pochi averi che riescono a ricevere da fuori, l’umanità che li lega nel dramma storico di un Paese intero. Cozzi ci restituisce così uno scenario devastato dalla violenza, dal sospetto, dal terrore poliziesco, in cui riecheggiano le urla e i suoni degli arti spezzati; ma a resistere a questa disumanità c’è un’umanità coraggiosa che si rifiuta di cedere all’orrore dittatoriale.

Quando nello stadio filtra dall’esterno un pacchetto con dentro un panino al formaggio, il primo istinto del destinatario non è consumarlo nel segreto, bensì quello di spartirlo coi vicini: «Eravamo centosei. Non fu facile, dovette fare calcoli matematici, divisioni e suddivisioni che sembravano non finire mai. Ma alla fine tutti potemmo avere la nostra briciola di pane e formaggio».