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Violent Femmes, nevrosi rock metropolitane

Violent Femmes, nevrosi rock metropolitaneViolent Femmes

Musica Il 26 luglio esce il nuovo album della band, «Hotel Last Resort»

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 25 luglio 2019

Senza mai dimenticare l’antica mistura di post-punk e street-folk, i Violent Femmes, nel corso del tempo, hanno letteralmente plasmato il concetto di «folk revival», grazie a un approccio minimalista e scanzonato, mescolando nevrosi metropolitane, The Velvet Underground su tutti, a demenziali sketch orrorifico-bucolico-acustici. Ma dopo il folgorante debutto omonimo del 1983, gli ottimi successori Hallowed Ground e The Blind Leading the Naked, e qualche spiraglio qua e là in dischi come Why Do Birds Sing?, il trio di Milwakee sembrava aver perso quell’identità peculiare composta anche da stralci di jazz spirituale, blues e country.

MA LA PROSSIMA pubblicazione, il 26 luglio, del decimo lavoro in studio, Hotel Last Resort, fortunatamente spazza via qualche decennio incolore, perso fra tentativi poco convincenti di aderire pienamente ai canoni del rock, più qualche trascurabile incursione elettronica e il bassista Brian Ritchie infatti ha dichiarato che è il miglior disco dai tempi di Hallowed Ground «È già un classico, nel senso che la gente lo può sentire tutto d’un fiato. E non è così lungo. Anzi è corto, tarchiato, solido, va al punto, va in direzioni differenti ma torna sempre al cuore della faccenda e poi finisce che forse hai voglia di riascoltarlo». Così, surfando fra le chitarre di Ricky Nelson, Jonathan Richman e Buddy Holly, l’album brilla della malinconica fragilità della voce deformata di Gordon Gano, capace di ribaltare stereotipi, non solo musicali, con la consueta, caustica ironia. In brani come Adam Was A Man, ad esempio, la band restituisce a Eva quella poca dignità imprigionata nei versetti della Genesi e il giardino delle delizie viene rimpiazzato dal «manicomio delle delizie», mentre nella sorprendente cover di God Bless America di Irving Berlin, molto più simile a un’elegia funebre che a un «orgoglioso» inno nazionale, le percussioni tribali e i ritmi folk sembrano dipingere, in paesaggi sonori, le terre dei Nativi Americani prima della colonizzazione. Nel finale, Everlasting You è una rara gemma d’amore che ricorda la splendida Please Do Not Go del 1983 mentre la title track, che vede la partecipazione della chitarra di Tom Verlaine dei Television, regala una delle frasi più belle, e teneramente sofferte, dell’intera discografia della band del Wiscounsin «Non cambio più gli accordi/Sono loro a farlo da soli».

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