Cultura

Vinciane Despret, gli animali «fanno la storia»

Vinciane Despret, gli animali «fanno la storia»

ITINERARI CRITICI Una intervista con la filosofa e docente all’Università di Liegi su «Autobiografia di un polpo e altri racconti», edito da Contrasto. «Il mio intento è disattivare la violenza che relega i non umani in un mondo povero di significati e di immaginare che sono creatori di forme narrative che eccedono il nostro linguaggio. I ragni possiedono archivi, i wombat invece una cosmologia. E bisognerebbe considerare di più le loro competenze poetiche»

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 17 luglio 2022

Vinciane Despret, docente all’Università di Liegi, si è sempre approcciata agli animali con garbo, cercando di instaurare con loro un dialogo reciprocamente trasformativo. Nel suo ultimo libro, Autobiografia di un polpo e altri racconti (Contrasto, pp. 135, euro 19.90, introduzione di Emanuele Coccia, traduzione di Matteo Martelli), Despret moltiplica la sua capacità di offrire interpretazioni illuminanti delle culture animali, proponendoci una fabula speculativa in cui, preso atto che «ogni essere vivente ha motivo di scrivere», ci fa «sentire i canti del pianeta» per invitarci a diventare lettori di ciò che gli altri viventi creano, perché «senza lettori non ci sono significati, e quindi nessuna continuazione del racconto».

Come mai è così interessata agli animali in carne e ossa?
Come sottolineato da Jacques Derrida, molti filosofi si sono occupati dell’animale, cioè di qualcosa che nulla ha a che fare con gli animali reali. A parte rare e lodevoli eccezioni, la filosofia ha sempre cercato di mostrare quanto gli umani fossero differenti dagli animali! Per quello che mi concerne, il percorso non è stato lineare. Dopo aver studiato filosofia, mi sono interessata alla psicologia. Molti dei corsi di psicologia erano dedicati agli animali, tra cui quelli di etologia che mi hanno affascinata! La passione per l’etologia si è immediatamente trasformata in passione per quegli animali su cui questa disciplina si era concentrata. Donna Haraway ha definito l’amore una malattia infettiva. Credo di essere una vittima felice di un virus che si è coevoluto con me in mondi multispecie.

Vinciane Despret / Fondation Jan Michalski©Wiktoria Bosc

L’idea centrale del suo lavoro è che se vogliamo che gli animali ci rispondano in maniera interessante dobbiamo porre loro domande interessanti…
Gli animali ci rispondono anche se poniamo loro domande che non li interessano – spesso sono obbligati a farlo –, ma le loro risposte sono prive di interesse sia per loro sia per noi, dal momento che con queste domande non impariamo nulla di nuovo. Prendiamo, per esempio, un ratto in un labirinto. Il ratto, o la ratta, risponde alle domande degli scienziati sulla memoria. Un ratto, tuttavia, non usa la memoria nello stesso modo in cui viene studiata dagli umani. Il ratto, o la ratta, fa affidamento sulle sue sensazioni corporee, sulle tracce olfattive che lascia sui percorsi senza sbocco (odori repulsivi) o sulle parti del labirinto che invece conducono verso l’uscita (odori attrattivi).
Queste tracce sono protesi corporee della memoria. Sarebbe importante comprendere il tipo di saggezza a cui il ratto fa ricorso. Gli scienziati, al contrario, vedono il ratto come un modello dell’apprendimento umano. Così facendo, non permettono alla ratta di mettere in atto le sue strategie e la costringono ad agire nel modo in cui ritengono che operi la memoria umana. Il che mostra quanto questa conoscenza scientifica sia permeata da questioni di potere, dominio e rifiuto della differenza. Da questioni politiche.

Nel suo libro riporta l’autobiografia di un polpo. Che rapporto c’è tra questa autobiografia e quella di Derrida ne «L’animale che dunque sono»?
Devo ammettere che non ho pensato a Derrida quando ho scritto l’autobiografia di un polpo. Ripesandoci, però, mi pare di scorgere un gesto analogo a quello di Derrida, che poi è quanto designa il termine «suis» (sono) del titolo originale de L’animal que donc je suis. In francese, «je suis» significa sia «sono» che «seguo»; in questo caso, Derrida si sta riferendo alla traccia se non alla scrittura stessa. Questo è ciò intorno a cui ruotano i miei racconti sui ragni, sui wombat e sul polpo. Abbiamo a che fare con questioni di scrittura; il che indica che gli animali possono «fare la storia», possono raccontare storie, possono lasciare tracce dotate di significato. Il mio intento è disattivare la violenza che relega gli animali in un mondo povero di significati e di immaginare che sono creatori di forme narrative che eccedono il linguaggio umano.

La piccola gatta di Derrida è stata sostituita da un invertebrato: sta proponendo una critica dell’antropocentrismo ancora più radicale di quella derridiana?
A posteriori direi che il mio scopo è stato quello di portare altrove il gesto di Derrida. Ricordiamoci la critica che gli ha mosso Haraway: la piccola gatta apre il libro ma poi di questa «gatta non ne sappiamo più nulla». In tutto il saggio, a dispetto delle cose meravigliose che pensa e dice degli animali, Derrida «manca l’appuntamento», continua Haraway. Immaginando, grazie alla fiction narrativa, che tipo di trasformazione di vita sia richiesto dal divenire compagna simbiotica di un polpo, ho cercato di pensare sperimentalmente in quali condizioni l’appuntamento si potesse realizzare. E ho fatto questo in maniera molto concreta, chiedendomi quali trasformazioni corporee siano necessarie, di quale grammatica avremmo bisogno, per rendere possibili altre forme di soggettività. Se ho scelto il polpo, è perché in questo caso le trasformazioni devono essere più pronunciate di quelle che richiederebbero mammiferi o vertebrati. Più che di una mossa contro l’antropocentrismo – anche se le conseguenze di tale mossa non possono che destabilizzarlo –, si tratta di un esperimento sulle differenze ben più impegnativo.

L’interesse per quanto dicono gli animali sta portando a una svolta epistemologica? Ci sono resistenze da parte dell’accademia?
La svolta epistemologica è cominciata da tempo, io sto solo accompagnandola. A partire dai primi anni ’90, tutti i miei lavori sono stati la testimonianza che qualcosa stava succedendo, che le domande sugli animali si stavano moltiplicando e diventando sempre più complesse. Ho cercato di sostenere questo cambiamento, mostrando ciò che era interessante da un punto di vista epistemologico e politico. Prima ho proposto agli scienziati di alzare un po’ il livello, di essere un po’ più audaci, rimanendo però dentro il perimetro tracciato da loro. Con quest’opera di fiction ho radicalizzato le mie richieste di cambiamento, chiedendo loro di accordare agli animali competenze più poetiche, per esempio di interpretare le loro tracce come scritti letterari, di considerare gli animali come artisti, di interpretare le loro produzioni come produzioni artistiche: i ragni possiedono archivi, i wombat una cosmologia, i polpi una scrittura.
Può sorprendere ma la resistenza degli accademici è meno forte oggi che negli anni ’90, quando mi fu detto che ciò che stavo facendo non era filosofia. Ovviamente, non mi aspetto che gli scienziati accettino il mio esperimento-narrazione. Ma non è questo che voglio: mi basta che immaginino che le cose possano essere altrimenti, senza imporre loro «come» debbano essere – questo è esattamente il ruolo della fiction.

Lei afferma che è impossibile restituire in un solo libro tutti i racconti animali. Può, però, dirci come si dovrebbe operare per poterli cogliere al meglio?
Credo che l’aspetto più importante per tradurre in scrittura le differenti forme di comunicazione degli animali sia impegnarsi in un duplice processo. Bisogna riconoscere l’enorme pluralità delle forme di scrittura – visiva, olfattiva, feromonica, uditiva, vibratoria, coreografica, fugace – e leggerle per quello che sono: modalità espressive complesse. Studiandole, conoscendole meglio, decifrandone i significati (anche parzialmente), offriamo a noi stessi la possibilità non solo di apprezzare la ricchezza di tutta questa «sapienza», per usare un termine di Val Plumwood, ma anche di prestare attenzione alle conseguenze delle nostre modalità di espressione (luci, rumori, gesti…), che non smettono mai di interferire sulle vite degli animali, di invaderle e inquinarle. Di renderle molto difficili, se non addirittura impossibili. Poi, considerando il vivere come condivisione di uno stesso gesto di scrittura, si viene a realizzare un effetto paradossale molto interessante sia da una prospettiva epistemologica che politica: rendere gli animali più «vicini», più simili a noi per comprendere meglio le loro differenze, singolarità, estraneità. Per trasformarli in «genitori alieni», come direbbe Baptiste Morizot.

Per concludere, è d’accordo che, malgrado tutto, il suo libro è ricolmo di gioia?
Il gioco, l’umorismo, la fiction sono vettori di oggettività, perché richiedono di farsi coinvolgere nelle loro forme altamente riflessive e di adottare prospettive multiple ma sempre situate: «Cosa accadrebbe se dicessi/immaginassi questo o quello?». Si tratta, insomma, di moltiplicare le forme dell’oggettività. In fondo, significa coltivare, in maniera molto concreta e pratica, il principale talento degli scienziati: l’immaginazione. E farlo in maniera, per così dire, acrobatica e, soprattutto, con gioia.

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