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Vince la socialdemocrazia di Mette Frederiksen. Perché xenofoba

Vince la socialdemocrazia di Mette Frederiksen. Perché xenofobaMette Frederiksen, leader del partito socialdemocratico danese

Danimarca La giovane leader ferma la destra xenofoba danese ma solo intestandosi le peggiori retoriche anti-migranti

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 7 giugno 2019

Il Nord della Ue torna alla socialdemocrazia. Dopo la Finlandia e la Svezia, anche in Danimarca i socialdemocratici guidati da Mette Frederiksen, 41 anni, sono arrivati in testa alle elezioni legislative del 5 giugno, con il 25,9% dei voti (ma nel 2015 avevano ottenuto il 26,3%).

Venstre, i liberali del premier uscente Lars Lokke Rasmussen sono al secondo posto, con il 23,4% (in rialzo, 19,5% nel 2015). La Lista dell’unità (verdi) è invece leggero in calo, al 6,9%, anche perché i temi ecologici sono ormai argomento di quasi tutti i principali partiti. Il Partito socialista del popolo è al 7,7%, mentre raddoppia i voti il partito Radikale Venstre della commissaria Margrethe Vestager (che è candidata alla presidenza della Commissione per il gruppo dei liberali). Il voto mette fine a vent’anni di crescita costante dell’estrema destra xenofoba del Dansk Folkeparti, che fa il peggior risultato dal 2001 crollando all’8,7% (era al 21,3% nel 2015). Due altri partiti di estrema destra, nati di recente, restano al palo: 2,4% per la Nuova destra e solo l’1,8% (sotto la soglia di sbarramento del 2%) per Linea dura, degli estremisti anti-musulmani.

Il “blocco rosso”, sulla carta, ha così 91 deputati su 179 e la preminenza sul “blocco blu”, che ne conta 75. Ma per Mette Frederiksen non sarà facile fare un governo. Intanto, la leader socialdemocratica ha escluso una «grande coalizione» con i liberali di Rasmussen. Ma l’alleanza con le altre forze di centro-sinistra è tutta in salita. Al centro del conflitto: la politica dell’immigrazione. Mette Frederiksen ha puntato la campagna su «welfare, clima, scuola, figli, futuro», promettendo di mettere fine ai tagli alla previdenza sociale. Ma la leader socialdemocratica afferma anche che è la mano dura sull’immigrazione che ha «permesso di riannodare i legami con il voto popolare». Vent’anni di propaganda e di politiche di chiusura hanno lasciato il segno.

Nella scorsa legislatura, i socialdemocratici hanno sostenuto il governo Rasmussen quando ha proibito il burqa e il niqab – cioè il velo integrale delle donne musulmane – nelle strade, e persino quando è stato varato il cosiddetto «decreto dei gioielli», cioè la possibilità di prendere i valori dei migranti per compensare i costi dell’accoglienza, oppure l’obbligo di stringere la mano tra uomini e donne per ottenere la cittadinanza danese. Non hanno preso neppure troppo le distanze quando c’è stata l’ipotesi di inviare in un’isola deserta nel Baltico i migranti delinquenti. I socialdemocratici hanno sostenuto l’idea di aprire dei centri per migranti in Paesi extra-europei.
Social-radicali e verdi, invece, in campagna elettorale hanno proposto una politica meno restrittiva sui migranti. Nel 2015, in Danimarca sono entrate 60 mila persone, ma solo 15 mila hanno ottenuto l’asilo e nel 2017 queste cifre sono state ridotte a un quarto.

Mette Frederiksen è stata anche al centro di polemiche personali, in particolare sulla scuola privata: prima aveva criticato le famiglie che disertavano la scuola pubblica, poi si è scoperto che aveva iscritto le figlie in un istituto privato.

Jeppe Kofod, eurodeputato capo della delegazione danese nel gruppo S&D, afferma: «Queste elezioni segnano una chiara vittoria per la nostra famiglia politica e anche per tutte le forze progressiste in Danimarca. I danesi hanno chiaramente respinto i tagli, l’austerità e le riforme socialmente sbilanciate del precedente governo liberal-conservatore. È tempo di dare la priorità al welfare, alla lotta contro il cambiamento climatico e di mettere fine al doloroso blocco della politica passata».

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