Vince la socialdemocrazia di Mette Frederiksen. Perché xenofoba
Danimarca La giovane leader ferma la destra xenofoba danese ma solo intestandosi le peggiori retoriche anti-migranti
Danimarca La giovane leader ferma la destra xenofoba danese ma solo intestandosi le peggiori retoriche anti-migranti
Il Nord della Ue torna alla socialdemocrazia. Dopo la Finlandia e la Svezia, anche in Danimarca i socialdemocratici guidati da Mette Frederiksen, 41 anni, sono arrivati in testa alle elezioni legislative del 5 giugno, con il 25,9% dei voti (ma nel 2015 avevano ottenuto il 26,3%).
Venstre, i liberali del premier uscente Lars Lokke Rasmussen sono al secondo posto, con il 23,4% (in rialzo, 19,5% nel 2015). La Lista dell’unità (verdi) è invece leggero in calo, al 6,9%, anche perché i temi ecologici sono ormai argomento di quasi tutti i principali partiti. Il Partito socialista del popolo è al 7,7%, mentre raddoppia i voti il partito Radikale Venstre della commissaria Margrethe Vestager (che è candidata alla presidenza della Commissione per il gruppo dei liberali). Il voto mette fine a vent’anni di crescita costante dell’estrema destra xenofoba del Dansk Folkeparti, che fa il peggior risultato dal 2001 crollando all’8,7% (era al 21,3% nel 2015). Due altri partiti di estrema destra, nati di recente, restano al palo: 2,4% per la Nuova destra e solo l’1,8% (sotto la soglia di sbarramento del 2%) per Linea dura, degli estremisti anti-musulmani.
Il “blocco rosso”, sulla carta, ha così 91 deputati su 179 e la preminenza sul “blocco blu”, che ne conta 75. Ma per Mette Frederiksen non sarà facile fare un governo. Intanto, la leader socialdemocratica ha escluso una «grande coalizione» con i liberali di Rasmussen. Ma l’alleanza con le altre forze di centro-sinistra è tutta in salita. Al centro del conflitto: la politica dell’immigrazione. Mette Frederiksen ha puntato la campagna su «welfare, clima, scuola, figli, futuro», promettendo di mettere fine ai tagli alla previdenza sociale. Ma la leader socialdemocratica afferma anche che è la mano dura sull’immigrazione che ha «permesso di riannodare i legami con il voto popolare». Vent’anni di propaganda e di politiche di chiusura hanno lasciato il segno.
Nella scorsa legislatura, i socialdemocratici hanno sostenuto il governo Rasmussen quando ha proibito il burqa e il niqab – cioè il velo integrale delle donne musulmane – nelle strade, e persino quando è stato varato il cosiddetto «decreto dei gioielli», cioè la possibilità di prendere i valori dei migranti per compensare i costi dell’accoglienza, oppure l’obbligo di stringere la mano tra uomini e donne per ottenere la cittadinanza danese. Non hanno preso neppure troppo le distanze quando c’è stata l’ipotesi di inviare in un’isola deserta nel Baltico i migranti delinquenti. I socialdemocratici hanno sostenuto l’idea di aprire dei centri per migranti in Paesi extra-europei.
Social-radicali e verdi, invece, in campagna elettorale hanno proposto una politica meno restrittiva sui migranti. Nel 2015, in Danimarca sono entrate 60 mila persone, ma solo 15 mila hanno ottenuto l’asilo e nel 2017 queste cifre sono state ridotte a un quarto.
Mette Frederiksen è stata anche al centro di polemiche personali, in particolare sulla scuola privata: prima aveva criticato le famiglie che disertavano la scuola pubblica, poi si è scoperto che aveva iscritto le figlie in un istituto privato.
Jeppe Kofod, eurodeputato capo della delegazione danese nel gruppo S&D, afferma: «Queste elezioni segnano una chiara vittoria per la nostra famiglia politica e anche per tutte le forze progressiste in Danimarca. I danesi hanno chiaramente respinto i tagli, l’austerità e le riforme socialmente sbilanciate del precedente governo liberal-conservatore. È tempo di dare la priorità al welfare, alla lotta contro il cambiamento climatico e di mettere fine al doloroso blocco della politica passata».
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