Villon, ambiguo e insidioso con le sue maschere
Francois Villon, «Il testamento e altre poesie»: nuova traduzione per Einaudi Martire d’amore, delinquente, venditore ambulante, prosseneta... Antonio Garibaldi fa rivivere in endecasillabi la ‘memoria mortis’ del poeta francese del Quattrocento
Francois Villon, «Il testamento e altre poesie»: nuova traduzione per Einaudi Martire d’amore, delinquente, venditore ambulante, prosseneta... Antonio Garibaldi fa rivivere in endecasillabi la ‘memoria mortis’ del poeta francese del Quattrocento
Con i soli sussidi disponibili sono una manciata di documenti giudiziari, malcerti perché riferiti a identità diverse (François des Loges «detto de Villon», François de Monterbier, Michel Mouton), e la testimonianza altrettanto infida delle opere poetiche tramandate sotto il suo nome: una quindicina di rime sparse, collegate a occasioni e registri tematici variati, e due poemi, il Lais e il Testament, costruiti secondo lo schema collaudato del testamento fittizio. Nel primo il poeta procede a una serie di donazioni di beni (inconsistenti o dal valore equivoco), motivandole con la volontà di partire per distaccarsi dalla donna crudele che gli ha spezzato il cuore, senza sapere se ritornerà. Il secondo, molto più elaborato, si apre con un lungo preambolo di carattere narrativo in cui Villon sembra parlare di sé senza infingimenti; a questi versi fanno seguito una processione inesauribile di lasciti beffardi e spesso antifrastici (bersaglio prediletto sono i detentori del denaro e del potere, sia laici sia ecclesiastici) e un epilogo contenente le disposizioni finali (ufficio funebre, sepoltura); nel tessuto testamentario sono incastonati, con funzioni diverse, una ventina di episodi lirici, per lo più in forma di ballata. Il Testament comunica che Villon aveva trent’anni nel 1461: la sua data di nascita andrebbe perciò assegnata al 1431-1432, mentre non esiste alcun appiglio per stabilire la data di morte, o anche solo per congetturarla. L’ultimo atto ufficiale a lui riconducibile, con la data del 5 gennaio 1463, è una condanna a morte commutata in dieci anni di esilio da Parigi.
L’insieme della documentazione esistente e le opere conservate, quasi tutte d’impianto ostentatamente autobiografico, tratteggiano una personalità contraddittoria: poeta – il più grande del secolo con Charles d’Orléans – e delinquente, intellettuale raffinato e habitué di taverne e postriboli. Ma sono molte altre le sembianze che Villon mostra, o le maschere che indossa: solo nel Testament, quelle del martire d’amore, figura consacrata dalla tradizione cortese, del figlio affettuoso, della vittima innocente di persecuzioni odiose, del venditore ambulante, del prosseneta, del penitente, del carcerato prossimo a morire sulla forca… La proliferazione degli atteggiamenti si accompagna a una ricerca costante dell’ambiguità, a tutti i livelli del testo: fonico, morfologico, sintattico, semantico. Non stupisce, in queste condizioni, che ciascun lettore privilegi il volto o la maschera che meglio gli aggrada: di qui i giudizi divergenti, e spesso diametralmente opposti, espressi dai critici.
L’intera produzione poetica attribuibile con certezza a Villon è riproposta ora da Einaudi in veste italiana con testo originale a fronte (Il Testamento e altre poesie, «Collezione di poesia», pp. XXIV – 296, euro 16,00), anche se, curiosamente, nella quarta pagina di copertina si annuncia «una nuova edizione delle sue poesie più importanti». La traduzione, di notevole qualità, è stata condotta da Antonio Garibaldi, mentre la sobria «Introduzione» e le note esplicative si devono a Aurelio Principato, specialista reputato della letteratura francese tra Sette e Ottocento. Principato s’inoltra con lodevole circospezione nel territorio pieno d’insidie della tradizione quattrocentesca, la quale luccica simultaneamente dei colori dell’autunno (del Medioevo) e della primavera (del Rinascimento), e in cui convivono reviviscenze cavalleresche e filoni popolari e borghesi, opere edificanti rivolte a inculcare la memoria mortis e altre in cui vengono in luce concezioni laicizzate dell’esistenza umana. Particolarmente scosceso è il versante della poesia a dominante personale, negli anni di Villon non essendosi ancora interamente ricomposta la secolare divaricazione tra persona poetica e persona storica, tra il discorso tenuto nel testo e la verità biografica retrostante.
L’«Introduzione» provvede il lettore degli orientamenti essenziali, premurandosi anche d’indicare la natura sfuggente delle «molteplici sfaccettature allusive» del Testament (e del Lais, converrebbe aggiungere). Si potrà restare perplessi o no dinanzi alla promozione del poeta parigino a precursore degli odierni rapper; del resto, in un altro libro edito recentemente da Einaudi si legge che il massimo pittore preraffaellita, Edward Burne-Jones, credeva di ricondurre nella società materialistica e volgare della sua epoca l’astratta purezza di Beato Angelico e di Gentile da Fabriano, mentre stava inventando un’arte del futuro, il fumetto, «o, come si dice oggi, la graphic novel». Ma lascia sicuramente perplessi il credito accordato a certe interpretazioni fumose, che puntano su una presunta bipolarità incentrata sul nome François e sul cognome Villon, e sulle possibili scomposizioni omofoniche cui si prestano e l’uno e l’altro.
Sono relativamente poco numerose le note esplicative (e su qualcuna ci sarebbe motivo di discutere: per esempio, che Andry Courault, dedicatario della ballata in cui si demistifica l’ideale agreste, fosse al servizio di René d’Anjou, cultore fervente di tale ideale, è quello che la critica positivista chiamava un fatto: resta da stabilire – ma con quali strumenti? – se la coincidenza è fortuita, oppure se non lo è, come sostiene imperativamente la nota). In molti luoghi del Lais e del Testament il lettore è costretto così a fare i conti con veri e propri crittogrammi, decrittabili solo se si possieda la nozione delle realtà extratestuali evocate. Clément Marot, che nel 1533, com’è ricordato da Principato, allestì la prima edizione «critica» delle opere di Villon, rilevò come, per apprezzare fino in fondo l’industrie, ossia l’ingegnosità, dei lasciti fatti nei due testamenti, sarebbe stato necessario avere frequentato la Parigi del tempo, e avere conosciuto «i luoghi, le cose e gli uomini di cui parla». Le perlustrazioni degli archivi compiute negli ultimi due secoli hanno permesso d’identificare molta parte di quei luoghi, cose e uomini, e vorrà pur dire qualcosa che, mentre l’apparato esegetico del libro di cui si discorre occupa 10 pagine, quello dell’edizione bilingue delle Opere di Villon allestita dalla compianta Emma Stojkovic Mazzariol per i «Meridiani» Mondadori (2000) se ne prenda ben 340. Irrefrenabile ardor eruditionis? No: l’edizione critica francese più recente, a cura di Jean-Claude Mühlethaler (2004), conta più di cento fittissime pagine di note, mai oziose.
Resta da dire della versione italiana, di cui ho già segnalato i meriti. Garibaldi è ricorso in modo sistematico all’endecasillabo, con poche eccezioni: scelta degna di apprezzamento, per il duro cimento che comporta. Essa presenta però due tipi di inconvenienti. Il primo risiede nel fatto che il Testament alterna due tipi di versi, l’octosyllabe, metro tradizionale della narrazione, corrispondente al novenario, e il più austero décasyllabe, metro della liricità e della didassi, corrispondente all’endecasillabo, con un conseguente appiattimento del dettato nella versione italiana (fenomeno che non si produce né nel Lais, tutto in octosyllabes, né nelle «Poesie diverse», slegate l’una dall’altra). Il secondo inconveniente consiste nelle deviazioni e nelle forzature che il vincolo metrico-ritmico adottato fa subire qualche volta al senso dei versi francesi, e a quella che chiamerei la loro logica poetica. Un esempio particolarmente chiaro si trova nella copertina del libro, dove sono riprodotti in sequenza quattro versi della celeberrima ballata detta (da Marot) des pendus, certamente uno dei vertici della poesia mondiale, e i loro equivalenti italiani: «Qui ci vedete in cinque o in sei appesi: / la nostra carne anche troppo nutrita / da un pezzo è divorata e imputridita, / e cenere noi, le ossa, siamo e polvere». La resa è eccellente, ma in francese l’ultimo verso suona «et nous, les os, devenons cendre et pouldre», rendendo tangibile il lento processo di dissoluzione che porta le ossa, unica parte superstite dei corpi, a ridursi a loro volta in cenere e in polvere, a divenire la rovina di una rovina. Ma queste riserve hanno scarso peso, di fronte a una versione che, lungi dal valere solo come «ponte», riesce a tirare a sé l’attenzione del lettore.
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