Videochiamate e abbracci «proibiti» in quarantena
Immaginari Una nuova sceneggiatura per raccontare il lockdown anche attraverso le immagini dei film.Cene, passeggiate e allenamenti fra quattro mura degni di «Rocky»
Immaginari Una nuova sceneggiatura per raccontare il lockdown anche attraverso le immagini dei film.Cene, passeggiate e allenamenti fra quattro mura degni di «Rocky»
LUNEDÌ. Esterno giorno. Appuntamento segreto con l’amica alla posta. Dopo i pagamenti ci concediamo un giro. Passeggiamo fuggiasche guardandoci attorno per non essere riconosciute (con la mascherina è comunque cosa ardua): Thelma e Louise (Ridley Scott, 1991). Assistiamo ad una tipa strana, che fa la coda per il negozio a zig zag, cambiando sempre postazione, senza ragione. Alla fine va via. La signora che le era più vicina ci racconta che è perché dentro il negozio è presente una bambina. Mah… immagino che la tipa strana visualizzasse la bambina come un’ enorme cellula di Covid-19. Allucinante. Stiamo per sbroccare tutti. Per le scale faccio uscire una mosca dalla finestra.
Interno giorno. Yoga col marito (dopo esperimento fallimentare col figlio). Mette la musica indiana per concentrarsi: a me deconcentra ma non dico niente.
MARTEDÌ. Interno giorno. Il marito ha mal di schiena per via dello yoga (non posso ridere per non offenderlo). Faccio due pagnotte del mio ormai famoso pane senza lievito (ho fatto pure il tutorial su YouTube) mezzo integrale con semi di girasole. (Il marito mi fa foto semi porno con le due pagnotte al posto delle tette: postarla o non postarla? Un’amica la suggerisce per il giornale: «Sai che impennata di lettori?»: però c’è anche una versione pudica). Finalmente vediamo un film (dopo una forte imposizione da parte mia): Harold e Maude (Hal Ashby, 1971). Mi pare adatto. The al gelsomino. Videochiamata con amica a Londra: che grande gioia! Trovata buona serie un po’ angosciosa ma piace ad ambedue. Ognuno di noi diventa Il Dio delle piccole cose (Arundhati Roy, 1997, Guanda editore).
MERCOLEDÌ. Interno giorno. Indosso pantaloni della quarantena della polmonite: e se portasse male? È il giorno difficile. Quello in cui il marito lavora per tutto il pome con le lezioni online in giro per il mondo e quindi è stressato dal momento in ci si alza fino a quando si sdraia sul divano per rilassarsi prima di andare a letto. La moglie (che sarei io) deve essere neutrale, una specie di automa che dice sempre di sì. Decisione di fare i biscotti digestive. Prima infornata bruciata. Gli altri ottimi. Poi lunga telefonata con amica che non sentivo da tempo. Ne approfitto per fare una zuppa tagliando tante verdure mentre lei parla. Il terrazzino oggi ha sentito la mia mancanza. I gatti hanno dormito tutto il giorno e sono pronti per le avventure notturne. Io me ne andrei a letto senza cena, all’istante, temendo di vedere ombre sul soffitto come un alcolista in astinenza (Giorni perduti, Billy Wilder, 1945).
GIOVEDÌ. Interno mattina. Sveglia di soprassalto per la spesa che è arrivata alle otto, bravo il marito che ha sentito il citofono ed è sceso sei piani di scale per prendere gli scatoloni di spesa. Giorno moscio.
Interno sera. Video cena con gli amici invidiati perché stanno in campagna: la notte del primo decreto blocca-tutto il padre e i due figli hanno fatto la folle notte di viaggio dal nord dove si trovavano in settimana bianca, sono arrivati in città alle cinque, hanno dormito un paio d’ore, fatto bagagli, preso la mamma e i computer e sono partiti fino alla casa in Umbria a un’ora da Roma. Si fanno un lungo soggiorno campagnolo che li sta rapidamente trasformando in contadini, coltivatori: hanno preso quattro galline ovaiole, fanno l’orto. Noi rosichiamo come scoiattoli le ghiande (La gang del bosco, Karey Kirkpatrick, Tim Johnson, 2006).
VENERDÌ. Interno/esterno giorno. Mattina con seduta di analisi e nel frattempo anche ora di abbronzatura (ho comprato la protezione 30: ci tengo alla pelle). Preferirei essere Lauren Bacall e trovarmi a bordo piscina realizzando di avere sposato uno sconosciuto in una notte di follia (La donna del destino, Vincente Minnelli, 1957).
Esterno giorno. Mattina da castroni. Regalo liquore alla Liquirizia al marito. Cosette buone, come faccio io. Un po’ per Pasqua, un po’ no.
Interno sera. Spavento per mia cognata finita in pronto soccorso. Marito va. Io resto sola col figlio che, tramite alcuni accorgimenti, non ha capito l’emergenza ed è andato a dormire in pace. Attendo guardando la tele: Accadde in penitenziario (Giorgio Bianchi, 1955) con Sordi, Aldo Fabrizi e Walter Chiari. Chiamo al telefono mio padre anche se sono le undici passate: so che è nottambulo. Fingendo di non essere preoccupata mi faccio rassicurare da lui. Un messaggio del marito dall’ospedale: per fortuna era solo una reazione allergica.
SABATO. Esterno giorno. Esco e vado da mamma. Di solito sto poco: mi basta accertarmi del suo stato di salute, fare due chiacchiere, lasciare dei soldi alla ragazza e avere la speranza di non aver contagiata la genitrice. Poi mi metto in fila davanti al negozio biologico dove invito la bella vicina attrice (Tenebre, Dario Argento, 1982) a prendere un po’ di sole sul nostro terrazzo il giorno di Pasqua: mi spiace che stia da sola col gatto.
Interno pomeriggio moscio di telefonate in cui siamo tutti poco allegri. Alle sei e mezzo una intensa seduta di ginnastica con figlio che mi mette Ko: quindici giri della casa, addominali, flessioni e sono morta. Un allenamento degno di Rocky (John G. Avildsen, 1976), che peraltro lui non ha mai visto.
Interno sera. Filmetto leggero francese, su mia insistenza, per ridere tutti insieme.
DOMENICA. Interno giorno. Prima rottura delle uova in videochiamata con gli amichetti che stanno in campagna che ci confessano: le galline ancora non hanno fatto le uova! Piccola nostalgia dello scorso anno che eravamo tutti insieme.
Esterno giorno. Edicola a campo, vado sul sicuro.
Interno giorno. Passo a salutare mio padre lì accanto. La moglie è in bagno. Parlottiamo noi due, cosa che accade raramente. Poi devo andare. Indosso giacca e mascherina. Papà mi accompagna alla porta di ingresso, celata dietro una spessa tenda rossa. Con una mano sul pomello mi si avvicina, mi abbraccia, mi bacia sul lato sinistro della guancia coperto dalla mascherina FFP2, mi continua a stringere mentre lo ricambio con vigore. Un suo ciao con la voce tremolante ed esco. Dal primo gradino comincio a singultare, piano piano mi si squarcia in petto un pianto solenne come un’onda, schiaccio il pulsante del cancello, poi quello del portoncino, sono in strada, quella via che porta il nome del luogo tanto anelato dai buoni cattolici al momento del Giudizio (l’agognato paradiso) e sto piangendo nell’ingombro bianco di tessuto traspirante che mi ricopre la bocca e il naso, piango ma vorrei parlare con qualcuno, raccontare quanto questo abbraccio appena avvenuto supplisca a tutti quelli non ricevuti da lui negli ultimi 50 anni. Chiamo l’amata amica milanese, come se la distanza anche fisica attuale le consentisse un’analisi più lucida, più lineare e vera. Mentre lei risponde e parla, continuo instancabilmente a piangere senza sosta. Lei mi dice che è un momento speciale, che mi fa bene sfogare, che per mio padre sono importante, lo sanno tutti, «Sì, me lo dicono sempre gli altri», controbatto tra le lacrime. Arrivo fino a sotto casa in questo stato sempre più bagnato. Ora salirò dalla mia famiglia che per una volta ha cucinato – arrosto con patate, di cui mangerò solo i tuberi – e sarà il pranzo di Pasqua, non quello tradizionale ma il nostro pranzo di Pasqua, di noi tre, famiglia da 12 anni. E intanto, in questo assurdo giorno, al di là di ogni previa immaginazione, io e mio padre siamo risorti figlia e genitore primigeni in questa landa sospesa senza futuro.
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