Video, sculture, habitat… abbracciamoci
Dalla mostra "G" di Grazia Toderi e Gilberto Zorio, Chiesa della Confraternita del SS. Nome di Gesù, Vigone, Torino
Alias Domenica

Video, sculture, habitat… abbracciamoci

A Vigone, un paese a sud di Torino, "G" di Grazia Toderi e Gilberto Zorio, a cura di Andrea Villani Stelle e luci artificiali come legame tra la vita dell’uomo, le città terrestri e la volta celeste... In una chiesa sconsacrata le opere della coppia inscenano «un passo di danza», che emerge fosforescente dall’oscurità
Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 20 febbraio 2022
Fabio CafagnaVIGONE (TORINO)

Per visitare la mostra G, nata dall’intimo dialogo di opere, pensieri e visioni di Grazia Toderi e Gilberto Zorio, coppia non solo nell’arte ma anche nella vita, bisogna raggiungere Vigone, città a vocazione agricola del Piemonte sud-occidentale, circondata da campi coltivati a granoturco che d’estate si trasformano in un fitto labirinto verde e d’inverno rivelano la scabra pianura alluvionale. Nel dedalo di vicoli del centro storico si nasconde la Chiesa della Confraternita del SS. Nome di Gesù, eretta a metà Seicento dopo lunghi anni di peste che avevano ridotto la comunità in miseria.

L’edificio, oggi sconsacrato, è l’inusuale palcoscenico sul quale i due artisti inscenano un atto d’amore che, coraggiosamente concreto, non sfuggirebbe neppure a chi fosse all’oscuro della loro relazione privata.

Per la prima volta, i video di Toderi, Leone d’oro alla Biennale di Venezia del 1999, sfiorano e invadono le sculture e gli habitat di Zorio, protagonista dell’Arte povera. È così che, nell’oscurità prevalente, le opere si accarezzano, si abbracciano, mentre le proiezioni solcano, lambiscono e si posano sulle superfici, quasi a volerle amorevolmente levigare. All’iniziale cecità del visitatore si contrappone un intero vocabolario della tattilità, lessico cui fa ripetutamente riferimento la stessa Toderi quando, lieta e commossa, mi conduce in questo viaggio.

È sera e sul sagrato della chiesa si scorge il disegno di una stella di Zorio, dalla cui sagoma, realizzata in cemento rosso, si elevano cinque sedute in pietra di Luserna, roccia estratta tra la val Pellice e la valle Po, molto comune nell’edilizia locale. La panchina, composta di elementi convergenti che invitano all’assemblea e alla condivisione, è solcata da una trama di costellazioni fosforescenti, visibile soltanto quando la luce del giorno si spegne. Un’imponente proiezione di Toderi lambisce le sedute e si propaga con la sua forma ovoidale a sfiorare i gradini dell’ingresso, il portale e la facciata della chiesa.

Le immagini notturne della Terra vista dallo spazio e quelle della volta celeste si fondono su una superficie rossastra solcata da due rette che s’intersecano a novanta gradi a formare una croce o un bersaglio. La sovrapposizione di stelle e luci artificiali suggella quel legame tra la vita dell’uomo, le città terrestri e la volta celeste che già Italo Calvino aveva evocato in Le città invisibili. Panchina e proiezione rimarranno a Vigone, realizzate, così come la mostra, nell’ambito di Panchine d’artista, progetto per la promozione dell’arte contemporanea che da più di dieci anni anima la vita culturale della città e regala ai suoi abitanti nuovi spazi di aggregazione. Insolitamente, quest’anno gli artisti invitati sono due e la mostra, aperta fino al 31 marzo, a corredo della quale è stato pubblicato un catalogo bilingue, è curata da Andrea Viliani.

Entriamo nella chiesa e Toderi mi chiede di prestare attenzione al progressivo e lento adattarsi della visione al buio. Scorgo alla nostra destra un muro alto e irregolare che, ergendosi a occupare quasi integralmente la navata, impedisce allo sguardo di scivolare verso l’altare. È la parete esterna dell’imponente Torre Stella (2021) di Zorio, i cui blocchi bianchi di Gasbeton sono disposti con regolarità a formare un’architettura che si rivela compiutamente soltanto se percorsa nella sua interezza. Nonostante la forma-matrice sia riconoscibile in quella di una stella, la costruzione nel suo insieme risulta inintelligibile. Nel suo dinamismo stabile di forma al contempo aperta e chiusa, evoca, come scrive Viliani in catalogo, «sia i resti di una civiltà scomparsa sia le fondamenta di una civiltà a venire, si presta a essere intesa sia come un rifugio che accoglie e un riparo che protegge, sia come fronte di difesa e di avvistamento per nuove scoperte».

E di rifugio parla anche Toderi, quando mi fa notare che una punta della stella si è allungata a dismisura per ospitare la sua proiezione We Mark (2020-’21), la stessa che ci ha accolto all’esterno e che, in un gioco di rispecchiamenti, si dirige anche verso l’abside, intersecando obliquamente il vuoto di un ovale centrale un tempo occupato da una tela a olio di Pietro Paolo Operti. Se all’interno della Torre Stella la proiezione di Toderi si trasforma in un cuore pulsante animato dalle ombre dei visitatori, sulla parete dell’abside rivela il suo carattere epifanico, con il segno rosso delle ortogonali che diviene un potente simbolo di religiosità laica. La proiezione ha la capacità di attivare la materia e, come in un processo alchemico, i blocchi di Gasbeton pulsano, gli stucchi dell’abside respirano e gli artifici dell’architettura barocca sembrano vivere una nuova stagione.

Toderi mi chiede di affacciarmi alla sacrestia, un’ultima camera delle meraviglie in cui ha trovato casa G (2021), opera realizzata a quattro mani. Appoggiata a un giavellotto, una stella in terracotta, colla vinilica e alluminio è illuminata da un fascio di luce rossastra che a contatto con la materia ha il potere di trasformarla in rame. Sulla superficie vibrante di riflessi una lettera G scivola lungo una traiettoria ellittica. G è una piccola stella che danza sulla superficie di una stella più grande. Quando la proiezione si spegne, l’energia luminosa rimane attiva sull’impugnatura del giavellotto che, imbevuta di fosforo, preserva la commovente memoria del passato.

Prima di lasciarci, è Zorio a dirmi che questa mostra non è stata altro che un passo di danza. Un passo di danza, penso io, simile a quello elegante della piccola G che dà il titolo alla mostra e condensa nelle sue linee sinuose non soltanto i nomi dei due artisti, ma anche l’amore del loro incontro.

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