Video e azioni critiche nell’era del disastro psico-ambientale
Eventi Incontro con il collettivo Democracia, protagonista a Bari della personale al titolo "Enjoy the Collapse"
Eventi Incontro con il collettivo Democracia, protagonista a Bari della personale al titolo "Enjoy the Collapse"
Interviene e problematicizza lo spazio sociale il collettivo Democracia, con azioni in cui le narrazioni egemoniche vengono sovvertite attraverso manifesti, video installazioni, documentazioni fotografiche e progetti editoriali. La volontà del collettivo, fondato a Madrid da Iván López e Pablo España nel 2006, è di attivare consapevolezza critica e azione collettiva. Enjoy the Collapse è il titolo della loro personale allo Spazio Murat di Bari, parte dell’International Gender Festival (BiG). Li abbiamo incontrati.
Il titolo della mostra Enjoy the Collapse mi fa pensare ad Adbusters, rivista che propone azioni critiche nell’era del disastro psico-ambientale. Negli ultimi anni l’ambiente mediatico è diventato sempre più tossico, contaminato da fake news, cancel culture e memetica. Potreste parlarci del vostro lavoro?
È vero, Enjoy the Collapse suona come uno slogan scomodo che riflette su uno stato di cose che preferiamo non vedere. Oltre ad essere il titolo della mostra è una campagna pubblicitaria che ricorda Adbusters. È vicina all’idea benjaminiana secondo cui «l’umanità è giunta a un tale grado di autoalienazione da contemplare la propria distruzione come un godimento estetico di prim’ordine», tradotta nella retorica dello slogan pubblicitario. Per far fronte a un ambiente mediatico così inquinato cerchiamo di sfruttarne il rumore e la distorsione per amplificare il nostro messaggio. In un ecosistema mediatico saturo, catturare l’attenzione richiede tecniche che abbiano la stessa velocità e intensità, per questo adottiamo un linguaggio contropubblicitario.
Quali opere sono presenti in mostra?
Pamela Diamante, curatrice della mostra, ha selezionato diverse opere: Order, Welfare State, e Jeremiah (picket Signs). Quest’ultima è una videoinstallazione sulla demolizione di una baraccopoli a Madrid, che si interroga sul ruolo dello spettatore di fronte alla distruzione e all’eliminazione di modi di vita non integrati nelle reti produttive. Order è un video concepito come un’opera lirica in tre atti. Il primo si svolge a Houston, dove abbiamo collaborato il New Black Panther Party. Il secondo è stato realizzato in un mall di Dublino dove un coro di bambini canta canzoni sul consumismo, e il terzo atto è girato ne l’hotel The Dorchester a Londra, dove alcuni milionari discutono con una cameriera di colore che serve loro la cena. L’installazione Jeremiah (Picket Signs), presenta i manifesti portati dalle New Black Panther Party a Houston, le cui scritte provengono da fonti eterogenee, da Amiri Baraka, Weather Underground, Esercito di Liberazione Simbionese, Buenaventura Durruti, Lucy Parsons e Shakespeare. A Enjoy the Collapse abbiamo invitato Nuria Güell che presenta due video, nel primo alcune prostitute raccontano la loro idea di mascolinità, il secondo è sul sistema penitenziario.
Ricordo una vostra opera intitolata Memorial al Terrorista Suicida che rappresenta un uomo in procinto di farsi esplodere, e nel piedistallo era scritto «Todos sois culpables salvo yo». Questa scultura parlava della difficoltà a rappresentare la condizione della vittima. Come può essere rappresentato il genocidio palestinese?
Quest’opera non parlava solo dell’impossibilità di quello, ma di come lo status di vittima sia qualcosa di desiderabile, fino a portare alla sostituzione delle false vittime con quelle reali. È quello che vediamo con il genocidio palestinese, dove lo stato israeliano si identifica nella condizione di vittima. Recentemente abbiamo partecipato a diverse mostre e vendite di opere d’arte a sostegno del popolo palestinese. Abbiamo realizzato due manifesti, uno mostrava rappresentanti di alcune fazioni della resistenza palestinese, da Hamas alle Brigate Abu Ali Mustada, scelti per riconoscerne lo status di «combattenti per la libertà« e non di «terroristi». Nell’altro è scritto «La fine della filosofia occidentale», che è anche il titolo dell’opera. Questo genocidio rappresenta il fallimento della morale occidentale con le sue pretese umanistiche e di emancipazione. A questo proposito ricordiamo la critica diretta a Jürgen Habermas per aver difeso il «diritto« dello Stato di Israele a massacrare palestinesi, portata avanti da autori come Hamid Dabashi o Asef Bayat. Con il genocidio palestinese, bisogna riconoscere il fatto che non si può ridurre la sofferenza a bene di consumo. Il flusso di immagini è continuo e non serve a mettervi fine. Affrontarlo con l’arte significa riconoscere l’impossibilità di rappresentare la violenza senza trasformarla in spettacolo. Per noi il genocidio non può essere «rappresentato» nel giusto modo. Però non dobbiamo smettere di provarci, perché solo cosi possiamo sottolinearlo e interrogarci sul nostro ruolo di spettatori al sicuro dietro gli schermi.
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