Cultura

Victoria Chang e i suoi necrologi senza cliché

Victoria Chang e i suoi necrologi senza clichéVictoria Chang, foto WikiCommons

POESIA A proposito di «Obit», pubblicata da InternoPoesia

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 26 giugno 2024

La memoria non fiorisce, bensì sanguina internamente. Così ritiene Victoria Chang, poeta sino-americana e titolare della cattedra Bourne di poesia al Georgia Tech, quando nel 2021 scrive Dear Memory. Appena un anno prima dà alle stampe una silloge tanto potente quanto perturbante che ora è stata pubblicata da InternoPoesia con il titolo Obit. Poesie per la fine (tradotta in italiano, con testo inglese a fronte, da Adele Bardazzi, autrice di una rigorosa introduzione, pp. 237, euro 18).

Se i ricordi di Dear Memory sono frammenti resuscitati, in Obit la forma del «necrologio» consegna qualcosa di più tagliente, il cui evento scatenante è all’apparenza la morte della madre. Ripetute e diseguali, le morti di cui scrive Chang sono reali e definitive e, al contempo, sembrano probabilità. L’andarsene non è l’ultima possibilità solo dei corpi cari, ma anche degli oggetti, che malgrado tutto deteriorano e scompaiono, mescolandosi alle parole che sapevano dire il mondo.

A esprimere questo scandalo della perdita di chi si ama, si aggiunge per Victoria Chang la fisionomia (altrettanto difficile da tenere intatta senza franarci dentro) di un andarsene che è ritiro in un’altra parte del comprensibile, cioè il territorio conseguente l’ictus paterno. Di questo lobo frontale, immaginato da Chang in molti modi – e che non è un caso apra questa silloge di insolita e complessa luminosità – non si ha certezza. Si sa solo che il suo collasso è metonimia di un dolore non quantificabile, si può intuire solo a pezzi. Non risparmia nessuno, il dolore, e anch’esso muta, più volte. Il tremito investe anche altro: la logica, poi le lettere, la grammatica che non ammette errori né lingue minori. Infine il tempo e lo spazio, muoiono anch’essi, infiacchiti e sfocati come il senso di colpa e la casa, insieme ai medici, all’affetto e le buone maniere, i vestiti e l’oceano. E i padri e le madri.

Se c’è una fine senza appello, che corrisponde più o meno alla morte terrestre, ce n’è una ulteriore che è luogo di ammutinamenti differenti. Ecco perché nella tassonomia di Victoria Chang a deperire è soprattutto lei stessa e la sua capacità di enunciare la fine: in effetti le accade diverse volte, quando «scambiò posto con la sua ombra perché la sofferenza cambia forma e avviene in segreto», oppure quando la sua immaginazione possedeva un peso specifico o nei sogni scuoteva gli alberi. «Forse non ci sono inizi», scrive Chang in Obit, «Forse niente è un’elegia, come la pioggia al chiuso non è un inizio né una fine».

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento