Un anno dopo la suggestiva apparizione negli spazi della chiesa sconsacrata di Sant’Andrea de Scaphis (avamposto romano del gallerista Gavin Brown), Victor Man torna a esporre in Italia, con una personale a Torino, Fondazione Sandretto Rebaudengo, fino al 26 febbraio 2023. Man, rumeno, classe 1976, è uno degli esponenti più in vista della «scuola di Cluj» e conferma di avere un feeling con l’Italia: nel 2008 aveva tenuto, in uno spazio pubblico alla Gamec di Bergamo, la sua prima importante esposizione, curata da Alessandro Rabottini, che ora firma anche la presentazione della mostra torinese. Inoltre, due apparizioni alla Biennale (2007 e 2015) e, nel 2013, una mostra a Villa Medici a Roma. In Italia ha potuto contare anche sul rapporto con la Galleria Zero che lo aveva presentato per la prima volta nel 2007 a Milano.
Non è casuale questo rapporto di Man con il nostro paese: la sua parabola è all’insegna di un ritrovato «culto della pittura» e nei suoi lavori non mancano certamente citazioni da opere del passato, con una predilezione per il proto-Rinascimento italiano: alla mostra nella chiesa romana si potevano vedere riprese da Giovanni di Paolo, Sassetta, Fra Angelico, Giovanni di Pietro (lo Spagna). Alla Biennale 2015 aveva portato lavori ispirati a Domenico Veneziano e anche a Giorgione. «Sono interessato alla pittura dal punto di vista di una continuità con la storia dell’arte», ha spiegato. «Per almeno cinquant’anni sono stati avanzati incessantemente dei dubbi circa la capacità della pittura di fare dei progressi. Ma forse è proprio la sua marginalizzazione che la riporterà di nuovo al centro; questa condizione agonizzante la sta fortificando. Mi interessa ciò che potrebbe darle un significato diverso. Penso che siamo solo agli inizi di un processo di ridefinizione della pittura».
Man con lucidità identifica un processo che sta coinvolgendo numerosi artisti della sua generazione e che certamente ha avuto nell’esperienza della «scuola di Cluj», sorta attorno alla locale accademia e valorizzata dal lavoro dalla Galleria Plan B, un inaspettato punto di riferimento: da lì è uscita anche una star come Adrian Ghenie (1977), i cui valori d’asta sono ormai sopra l’asticella dei 10 milioni di dollari. Anche lui ama relazionarsi con i contesti storici, come dimostra la riuscita installazione di due pale d’altare dedicate a don Pino Puglisi, nella centralissima chiesa della Madonna della Mazza a Palermo.
In Italia si muovono su terreni molto contigui a quelli di Victor Man artisti come Nicola Samorì (1977), che in questo periodo ha in corso una mostra in dialogo con il Sassoferrato, proprio a Sassoferrato, cittadina natale dell’artista seicentesco così popolare per la sua pittura devozionale, o come Pietro Roccasalva (1970) di cui, a Lugano, negli spazi della Collezione Olgiati, si possono vedere i lavori così meditati ed eclettici, sia contenutisticamente che tecnicamente. Similmente a Samorì anche un artista come Markus Schinwald (1973), austriaco, interviene sulla superficie pittorica – nel suo caso di dipinti rintracciati nei mercatini – alterandone il dna.
La mostra di Victor Man a Sant’Andrea de Scaphis si intitolava Autoritratti, anche se tra le opere in mostra di autoritratti non ce n’erano, a differenza di quanto invece avviene alla Fondazione Sandretto: qui il volto dell’artista è in più casi al cuore del suo stesso lavoro. Tuttavia le cose non cambiano. «Autoritratto», prima che un soggetto, è una categoria che perimetra l’esperienza pittorica dell’artista rumeno. A Torino presenta venti opere realizzate negli ultimi dieci anni, con un allestimento assolutamente minimale dove la luce gioca un fattore strategico, rimarcando le opere con spot che lasciano nel semibuio il resto dello spazio. È una mostra molto intima, segnata dalla presenza di famigliari e da rimandi a sentimenti privati. Come scrive Rabottini in sede di presentazione, siamo di fronte a «una narrazione interiore e autobiografica che manifesta un tratto essenziale del lavoro di Man, ovvero la nozione che la materia più intima dell’arte sia l’esistenza individuale insieme con la sua trasfigurazione poetica».
L’artista ci rende testimoni dell’arrivo e della crescita della figlia, o dell’elaborazione del lutto per la morte del padre. In Self-Portrait at Father’s Death (2016) Man resta arretrato in una sorta di penombra, mentre tutta l’energia del quadro è concentrata in quell’inflorescenza dorata che sembra proprio fuoriuscire dalla sua bocca: quasi una rappresentazione del distacco dall’anima del padre. Anche l’opera che dà il titolo alla mostra, Eyelids, Towards Evening (Le palpebre verso sera), del 2022, si situa in un territorio che è difficile stabilire se appartiene a un al di qua o a un al di là. Quadro davvero emblematico, a partire dal suo titolo: siamo di fronte a un incantesimo pittorico, reso possibile dalla straordinaria qualità di cui è dotata la mano di Man. È un’opera che sembra affondare dentro lo spazio della tela, come in una sorta di limbo, di mondo di passaggio da cui è però impensabile si possa riemergere.
La notte in cui la ragazza sta inoltrandosi, quasi vi fosse sospinta dal peso stesso delle palpebre, non è una vera notte, ma un tempo sospeso, dove le cose hanno smesso di accadere e anche i sogni hanno smesso di lasciare le loro scie inquiete. Per questo la tavolozza di Man elimina i sobbalzi emotivi del colore e si assesta su un’unica sofisticata tonalità tra il bruno e il verde: per lui si è parlato persino di «cromofobia», all’opposto del suo connazionale Ghenie che invece nei suoi quadri ama dare libero sfogo a delle vere tempeste cromatiche.
Per questa mostra torinese Man sceglie di stare dentro un perimetro affettivamente privato, ed è scelta che certamente garantisce compattezza e intensità al progetto espositivo, al punto da indurre i visitatori a un approccio quasi devoto alle opere. Inevitabilmente, però, insieme al fascino si avverte anche un senso di esclusione: quella che abbiamo davanti è pittura che parla a se stessa di se stessa, quasi incatenata a un’autoreferenzialità. E noi siamo chiamati ad assistere all’assolo di un «autoritratto» continuo, nel dormiveglia della Storia.