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Victor Jara, poeta del popolo

Victor Jara, poeta del popoloVictor Jara (foto AP).

Ricordi/50 anni fa gli aguzzini fascisti di Pinochet torturavano e uccidevano il grande artista cileno Cantante, versificatore, educatore e regista teatrale, è stato una delle figure di spicco nella lotta alla dittatura. «La mia chitarra non è per i ricchi. Il mio è canto degli umili per raggiungere le stelle. Perché una canzone ha senso quando pulsa nelle vene di un uomo che morirà cantando le crude verità»

Pubblicato circa un anno faEdizione del 9 settembre 2023

1977: Il Movimento in Italia vive il suo ultimo momento di colorato assalto al cielo. Sono passati quattro anni da quando l’esercito con il generale maledetto Augusto Pinochet ha tradito il Presidente medico, il socialista Salvator Allende, nel Cile che sta dall’altra parte del mondo. Distruggendo un’esperienza unica di democrazia, equità, riforme di sostanza, partecipazione popolare, creatività, cultura dal basso che scardinava e abbatteva ogni torre d’avorio. Erano altri tempi. Il Cile, da chi in Europa si riconosceva nell’arcipelago composito della sinistra, vecchia e nuova, era ancora avvertito come una piaga ulcerata, una ferita aperta che non solo non s’era richiusa, ma era andata in suppurazione. Nel porto di Genova gli operai bloccavano le navi che portavano merci al regime di sangue e torture di Pinochet e al paese diventato brada terra di nessuno per gli agghiaccianti esperimenti ultraliberisti dei «Chicago Boys».

L’ULTIMO FOGLIO
In quel ’77 Pete Seeger, anima nobile e imponente della residua coscienza di classe sopravvissuta negli States alla rimozione e persecuzione sistematica della stessa è in tour in Italia con Arlo Guthrie, figlio di un altro gigantesco poeta e cantore schierato dalla parte di chi non ha, Woody Guthrie. Nei Palasport di Novara e di Torino l’8 e il 9 aprile risuonano questi versi dalla voce saggia e poderosa di Seeger, e sono sconvolgenti ancora oggi. È l’ultima poesia che Victor Jara è riuscito a scrivere su un foglietto all’Estadio Chile. La prima parte è una cronaca agghiacciante: «Siano cinquemila in questo angolo della città, siamo cinquemila, ma quanti saremo in tutta la città e in tutto il paese? Diecimila mani che potrebbero seminare i campi, potrebbero far funzionare le fabbriche. Quanta umanità piena di fame, dolore, panico, terrore? Sei di noi si sono persi nello spazio fra le stelle: uno è morto, uno picchiato come non avevo mai creduto che si potesse picchiare un essere umano, gli altri quattro che cercano di fuggire dal terrore, uno si getta nello spazio, altri quattro picchiano la testa al muro, tutti con gli occhi fissi sulla morte. I militari eseguono il loro piano con precisione, il sangue è medaglie per loro, la strage il segno dell’eroismo. Dio mio è questo il mondo che ha creato?». Era andato a compimento il piano di sangue per strangolare il «deviante» Cile socialista. Della Cia e del segretario di stato degli Usa Henry Kissinger. Nel 1973 ha cinquant’anni, con feroce sarcasmo della storia ha preso un Nobel per la pace, ed è lo stesso uomo che, oggi centenario, ha stretto la mano compiaciuto alla presidente Meloni. Nel momento dell’elezione a presidente di Allende con libere elezioni democratiche aveva dichiarato: «Non vedo alcuna ragione per cui ad un paese dovrebbe essere permesso di diventare marxista soltanto perché il suo popolo è irresponsabile. La questione è troppo importante perché gli elettori cileni possano essere lasciati a decidere da soli».

ONDA DI PIENA
Vero, aveva deciso tante cose da sola la parte più bella del Cile di quegli anni, ad esempio, un fermento culturale assertivo e forte come un’onda di piena che aveva coinvolto la poesia, le arti figurative, la letteratura, il teatro, la musica. Erano gli anni impetuosi della Nueva Canciòn Cilena, della riscoperta dei repertori popolari del Cile e dei paesi limitrofi a contrastare l’insipiente folklore reazionario da campanile, della meravigliosa e fragile Violeta Parra con i suoi brani di serena incandescenza.
Erano gli anni di Victor Jara, massacrato nello stadio del Cile, un gigante della cultura che sapeva muoversi guizzando tra arte e arte con la veemenza vitale di chi è affamato di vita e di cultura non per puntiglio narcisista, ma per donare a se stesso il dono della comunicazione con gli altri. Lasciamo la parola a lui, che sapeva spiegarsi con un’urgenza asciutta e dirimente: «Sono nato nel Sud del Cile, nella provincia di Nuble, a Chillàn. Sono di origine contadina. Sono un lavoratore della chitarra, un cantante popolare. Il canto è come l’acqua che pulisce la pietra, il vento che ci purifica, il fuoco che ci unisce e che resta qui, nel fondo del nostro essere, per farci migliori. La migliore risposta del canto è il canto come risposta».

CON VIOLETA PARRA
Tutto vero, ma al ribasso: perché Victor Jara fu anche un educatore, un poeta, un regista teatrale, e tutto confluì nella fluida potenza che hanno ancora oggi le sue canzoni. Victor era nato il 28 settembre 1932: suo padre era un contadino analfabeta, sua madre, sangue mapuche nelle vene, conosceva la scrittura, la lettura ed era una «cantora» per le feste contadine, una dote di gioioso entusiasmo e conoscenze che passa al figlio. Il percorso di maturazione di Victor è accidentato e complesso: la famiglia si trasferisce a Santiago, Victor diventa operaio e poi entra in seminario. Ne esce nel ’52, l’anno successivo è nel coro dell’Università del Cile, poi passa al teatro, studia recitazione e regia, e ha l’incontro, folgorante, con Violeta Parra, che lo convince a riprendere in mano la sei corde e ad approfondire i repertori popolari. A quel punto, a ventisette anni, Victor è diventato un regista – si laureerà in regia nel ’62, e diventerà anche professore di recitazione – e un autore dal piglio innovativo, che mette in scena anche Machiavelli, accanto a Sofocle e Brecht!
Ma la musica è un’altra passione inestirpabile, e scrivere versi da appoggiare sugli accordi gli viene sempre più facile. È membro della gioventù comunista del Cile e poi, in seguito, lo sarà anche del Comitato culturale del Partito comunista cileno: le sue radici familiari e cristiane lo portano con una naturalezza impetuosa verso il socialismo del riscatto di tutti.
Nel 1966 arriva il primo disco a suo nome, Victor Jara (ne seguiranno altri sei, prima dell’assassinio), e la direzione artistica dei Quilapayun, il gruppo che si presenta sul palco, con fierezza, indossando ponchos andini. Sarà proprio quel gruppo a favorire l’incontro con gli Inti-Illimani, l’altra realtà emergente del «nuovo folk» autoriale del Cile. Victor li prende sotto l’ala del suo sapere teatrale, insegna loro la comunicazione dal palco, le movenze giuste, la poesia dell’impegno. Li fa esordire l’11 dicembre del ’69 al Teatro IEM: è un trionfo. Poi li accompagna nella loro prima tournée: tante sue canzoni sono già in repertorio al gruppo, ma è l’incontenibile allegria e carica umana di Jara che travolge gli Inti-Illimani: Victor è uomo di letture voraci, memoria e cultura superiore, ma anche un folletto burlone capace di scherzi irresistibili.

IL MITO DEL «CHE»
Quando scrive, Victor Jara lascia sempre il segno, come Violeta Parra. Nasce El aparecido, un brano a ritmo di galope che rende quasi mitologica la fine del Che Guevara in Bolivia, che Victor aveva conosciuto di persona a Cuba nel 1959, nasce nel ’68 la poesia pura di Te recuerdo Amanda, che nel nome di donna ricorda sia la madre mapuche adorata sia la figlia di Victor, ma che è in realtà un ritratto di asciutta, tersa purezza sull’amore di un operaio e di un’operaia costretto dai tempi della catena di montaggio. In Aqui me quedo mette in musica i versi di Pablo Neruda. Alla fine arriva la sconvolgente Manifiesto, scritta nel ’73, poco prima del golpe, ritrovata su una musicassetta dalla moglie di Victor, la tenace ballerina inglese che è riuscita a mettere in salvo dalla furia dei militari gran parte dell’opera del marito. Suona quasi come una premonizione: «La mia chitarra non è per i ricchi, niente del genere. Il mio è canto degli umili per raggiungere le stelle. Perché una canzone ha senso quando pulsa nelle vene di un uomo che morirà cantando le crude verità». Quando Victor viene sequestrato dai golpisti lo portano nello Stadio degli orrori. Lo torturano per cinque giorni con odio, alla fine gli frantumano le ossa delle mani che accarezzavano le corde e lo scherniscono: «Cantalo adesso l’inno di Unidad Popular». I testimoni hanno raccontato che, con un filo di voce, Victor s’è messo a cantare.

I TRIBUTI
Innumerevoli nel mondo sono stati gli omaggi al fiore di poesia, di fierezza, di impegno dei brani di Victor Jara, uomo di teatro, di comunicazione, di poesia, creativo entusiasta della vita e della possibilità di trasformare il quotidiano in qualcosa di degno di essere vissuto da tutti, non solo da chi ha il portafogli gonfio.
Victor scriveva canzoni come recitava e dirigeva i suoi lavori: mettendosi in gioco con un sorriso e senza alcun risparmio di energia. Le canzoni di Victor Jara sono patrimonio di tutta l’umanità ribelle e dolente, e se ne conoscono migliaia di versioni. Anche in Italia, che fu terra ospitale per chi era riuscito a scampare alle grinfie insanguinate degli sgherri di Pinochet, un altro mondo fa. Accenneremo perciò solo ai tributi e alle riletture più importanti, quelle che hanno avuto il focus proprio sulle opere di Victor Jara, e non sembri strano che iniziamo con un gruppo che italiano non era, ma cileno: ma che in Italia si ritrovò nel momento del golpe brutale, base accogliente per la sopravvivenza e un rilancio nel campo della world music a livelli altissimi che è l’esatto contrario della «noia mortale della musica andina» che si lasciò scappare un disattento Lucio Dalla. Il filo che unisce gli Inti-Illimani – poi quasi italiani adottivi – e Victor si srotola per la prima volta nel 1966, quando Horacio Salinas, allora liceale quattordicenne, ascolta un concerto del fiammeggiante Jara. Victor diventa poi direttore teatrale dell’Università Tecnica frequentata dai futuri Inti-Illimani, e «forma» letteralmente al palcoscenico il gruppo ormai costituito. Da allora le canzoni di Victor saranno uno snodo ineludibile per gli Inti-Illimani, che collaboreranno anche direttamente a diversi dischi del generoso menestrello della libertà.
Nel Duemila gli Inti-Illimani hanno dedicato l’intero quarto volume della loro Antologia a Victor Jara, che compare in copertina seduto, una lunga sigaretta tra le dita, pensoso. Quattordici splendidi brani, e la sorpresa commovente di un brano ritrovato in abbozzo su una musicassetta di Victor, voce e chitarra, e mai uscito, Las siete rejas, sul quale gli Inti hanno costruito un fondale magnifico, un po’ come i Beatles per Free as a Bird di Lennon.

MEMORIA VIVA
Nel 1999, allo scadere di quel «secolo breve» che aveva conosciuto il socialismo umanista di Salvator Allende arriva un progetto monografico di grande spessore dall’Italia: Jara/Un puente para la memoria. Lo pubblica Nota Records, etichetta e casa editrice friulana assai attenta ai repertori folk non oleografici e meramente nostalgici. Si tratta della versione integrale dello spettacolo – che dà titolo anche al disco – andato in scena il 23 aprile del ’99 al Teatro Zanon di Udine con musicisti italiani, a partire dall’eccellente cantautore Lino Straulino, e dal Brasile, dall’Argentina, dal Perù. Il tutto organizzato dall’associazione argentina Vientos del Sud. Un progetto davvero particolare: la storia bella e tragica di Victor Jara scorre in sei sue canzoni cantate in spagnolo e sette altre tradotte in versione friulana. Potenza della poesia originaria. Il passo successivo ci porta a un omaggio dal Sud a Victor Jara, raddoppiato in questi giorni, e arriva con Daniele Sepe, inarrestabile maestro di musica e di idee che con l’America Latina della speranza, del socialismo e della musica che rimanda sogni e forza di lottare ha sempre avuto un rapporto stretto. Era il Duemila, le allora assai attive edizioni musicali del Manifesto pubblicarono il cd Conosci Victor Jara? del compositore e fiatista partenopeo, sul retro copertina campeggiava un logo assai significativo: Fondacion Victor Jara; all’interno la riproduzione integrale di un articolo sulla «nuova» politica di Jara scritto nel cruciale 1968, a lanciare un ponte tra l’esigenza primordiale di trovar voce, e quella della coscienza di classe di trovare nuove parole per saldare assieme la voce ritrovata e il bisogno di liberazione. Diciassette i musicisti coinvolti, sei i brani di Victor Jara sapientemente affiancati, ad esempio, a un tradicional messicano, evidente omaggio allo zapatismo di allora, alla presenza necessaria di Violeta Parra, a un brano di Gilberto Gil. Nel cuore del disco, l’integrale del drammatico discorso del Presidente Salvador Allende diffuso da Radio Magallanes pochi minuti prima della morte, mentre il palazzo della Moneda veniva assaltato dai militari golpisti e traditori. Del disco esiste anche una versione dal vivo, Conosci Victor Jara? (Live), registrazione di un concerto di presentazione al Leoncavallo di Milano, con Jose Seves degli Inti-Illimani, Massimo Ferrante alle chitarre e Auli Kokko alla voce, e gli strumentisti dell’Art Ensemble of Soccavo. Su Spotify e altre piattaforme.

OMAGGI RECENTI
Un lavoro splendido che tende la mano e i suoni, ventitré anni dopo, all’appena uscito Poema 15, titolo di un’intensa poesia di Pablo Neruda messa in musica da Victor Jara. Come nel precedente capitolo, Victor Jara è un faro-guida da cui si irradiano attualissime istanze di libertà: stavolta Sepe include puntate cubane, africane, indiane, ad esempio la struggente Confians, che fu ripresa anche dai Weather Report. L’introitus cantato è con El aparecido, la magnifica canzone di Jara per Che Guevara, il finale quasi a sorpresa con Italia bella mostrati gentile, un bel modo per rammentare quando eravamo noi i migranti in massa. Le voci di Emilia Zamuner, Ginevra Di Marco, Sandro Voyeux, Paolo Romano «Shaone», Enzo Gragnaniello, un coro e sedici musicisti coinvolti. Altro affollato centro.
Facciamo un altro passo indietro nella cronologia degli omaggi a Victor Jara: è il 2003 quando viene pubblicato un altro disco emozionante, pubblicato da CNI, e accreditato a Chiloe e Silvia Balducci, Homenaje a una sonrisa. Partiamo dal titolo: l’omaggio a un sorriso scaturisce da un’espressione di un intellettuale cileno passato per l’inferno del campo di prigionia cileno di Pisagua, che parlando con il gruppo Chiloe – ragazzi italiani formatisi proprio sulla musica andina e la nueva canciòn chilena, e diventati poi adulti e professionisti delle note – disse loro: «Come hanno potuto uccidere un uomo con un sorriso così bello?». Il sorriso e la musicalità di Jara rivivono in quindici passaggi cruciali, di Jara o a lui dedicati. Silvia Balducci, voce solista, cantautrice romana trasferitasi da tempo in Inghilterra, nel Duemila fece ritorno a Roma per un concerto degli Inti-Illimani e una tesi universitaria a quel gruppo storico legata. Lì ha ritrovato i vecchi amici dei Chiloe, scoprendo che erano ancora ben attivi musicalmente. Così è nato il progetto, con la vocalità di Balducci screziata dalle lunghe frequentazioni di blues e jazz: nuova luce sull’universo poetico di Victor Jara.
Passano una decina d’anni, e nel 2013 appare per Felmay Canción Nueva/Omaggio a Victor Jara. Cd a firma Ugo Rizzardi, voce e chitarra, corde e percussioni andine, tastiere, e Angelo Palma, voce chitarra, corde andine, flauto traverso e percussioni, aiutati da un corposo gruppo di amici musicisti, una dozzina, tra i quasi la magnifica Lalli con la sua voce di farfalla a intonare Manifiesto. Anche qui, è una lunga storia d’amore con le canzoni di Victor Jara a muovere il tutto: Rizzardi e Palma avevano cominciato a cantare Jara e gli altri protagonisti della «nuova canzone cilena» già nel ’74. Esperienze poi confluite nella fondazione del gruppo Umami, base torinese, e un percorso assai interessante che dalla «nuova canzone» e Victor Jara («un messaggio più attuale che mai», scrivono nelle note) s’è progressivamente allargato ad accogliere altri apporti dell’effervescenza creativa in America Latina. La storia degli omaggi italiani a Victor Jara qui approda. Senza dimenticare che moltissimi sono stati i tributi con una o più canzoni (da Guccini ai Modena City Ramblers ai Nomadi), è bello chiudere questo capitolo con l’ultimo avvistamento: la versione di Manifiesto inclusa dalla giovane vocalist e musicista salentina Rachele Andrioli in Leuca, il suo primo disco da solista recente vincitrice del Premio Loano, vetrina senza lustrini di quanto si muove nel «nuovo folk» della Penisola. La memoria continua.

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