Victor Iriarte: «Al cinema la libertà è più importante della perfezione»
Intervista Il regista basco racconta «Sobre todo de noche», in programma alla Viennale. Dalla selezione alla regia, la realtà dei festival, un’altra idea di famiglia
Intervista Il regista basco racconta «Sobre todo de noche», in programma alla Viennale. Dalla selezione alla regia, la realtà dei festival, un’altra idea di famiglia
«Nei film che amo c’è sempre qualcosa di misterioso» afferma Victor Iriarte, regista basco al suo primo lungometraggio dopo molti anni passati «dall’altra parte», quella dei programmer che selezionano i film ai festival, a San Sebastian nel caso in questione. Al centro di Sobre todo de noche ci sono due donne, interpretate da due attrici affermate nel cinema spagnolo, Lola Dueñas (protagonista di Volver, e presente in molti altri film di Almodóvar)e Ana Torrent (esordiente ne Lo spirito dell’alveare di Víctor Erice, poi nei lavori di Carlos Saura). La premessa del film si basa su un triste fenomeno spagnolo, quello dei bambini sottratti e affidati a famiglie scelte sottobanco – prima, con il franchismo, per questioni politiche, poi fino agli anni ’80 per un terribile business. Intorno a questa storia Iriarte intreccia una ricerca estetica dai molti riferimenti, spaziando dal noir al melodramma con una sensibilità per l’immagine che richiama Manoel de Oliveira. Dopo essere stato presentato alle Giornate degli autori a Venezia, Sobre Todo De noche sta ora facendo il suo percorso – al Chicago Film Festival, alla Viennale, alla Seminci di Valladolid.
Lei è un programmer da diversi anni, questo è il suo primo film da regista. Qual è stato il suo approccio?
Da programmer si può imparare molto sul processo creativo. Ho lavorato anche in una sala cinematografica pubblica a San Sebastian curando la programmazione e invitando filmmakers da tutto il mondo, quindi ho potuto incontrarli e parlare con molti di loro. Già da studente avevo realizzato diversi corti e film sperimentali, ho lavorato poi anche con delle compagnie teatrali, scrivendo per la scena, ma sapevo che prima o poi mi sarei dedicato allo storytelling per il cinema. Quando, con il Covid, si è interrotto tutto, ho avuto tempo per pensare, e poi Isaki Lacuesta nella veste di produttore mi ha aiutato a passare alla realizzazione.
L’ascendenza di certo cinema sperimentale si può rintracciare anche in questo film di finzione.
Per me fare cinema significa entrare in uno spazio di liberà artistica e creativa, sono abituato all’interdisciplinarietà e non ho paura di mescolare diverse possibilità. In questo mio primo film volevo quindi usare gli strumenti che la storia del cinema ci consegna, ho preso alcuni elementi anche dal muto ad esempio, dove non avevano paura di sperimentare, per arrivare a qualcosa che è possibile fare solo nei film. Bisogna salvaguardare questa libertà, che a volte nei lavori di finzione si perde, e per questo registi come Buñuel sono riferimenti.
A proposito della libertà nel fare cinema, anche i programmer che selezionano i film hanno delle responsabilità.
Assolutamente. Si possono trovare gli stessi nomi in molti festival, ma poi delle proposte che non saranno forse perfette, ma che trasmettono qualcosa di molto forte, hanno difficoltà. Ecco, la perfezione secondo me non è la cosa più interessante, mi piacerebbe vedere più libertà nei programmi, ma non è semplice. I festival sono delle realtà complesse, ci sono scelte che oltre ad essere artistiche sono anche politiche o geografiche.
Come ha trovato il respiro, il ritmo del film?
Abbiamo lavorato molto con le attrici, Lola Dueñas e Ana Torrent. Non mi interessava che imparassero esattamente la sceneggiatura a memoria, avevamo delle idee chiare ma allo stesso tempo credevamo molto nel presente, nel momento delle riprese, pur senza spingerci fino all’improvvisazione. Poi il ritmo e l’atmosfera sono il risultato del lavoro che abbiamo fatto al montaggio, ma non tutto è frutto di un processo razionale. Non miro ad arrivare al pubblico solo da un punto di vista mentale, certo c’è un’architettura, una struttura, ma serve per dare gli strumenti necessari affinché gli spettatori siano «nei guai» insieme a noi.
Una delle protagoniste è stenografa, l’altra suona il piano. Perché questa centralità delle mani?
Le stenografe mi affascinano, sono quasi invisibili ma scrivono la storia del Paese, nonostante la tecnologia vengono ancora utilizzate perché più affidabili. C’è poi una tradizione millenaria sul leggere le vite a partire dalle mani, è un ritratto piuttosto preciso, più dei nostri volti credo, anche se non lo comprendiamo bene. Quindi le mani rappresentavano per me parte della personalità dei personaggi. Ci sono grandi precedenti nella storia del cinema, penso a Pickpocket di Bresson.
Il film contiene una sfida al concetto tradizionale di famiglia?
C’è l’idea di una famiglia possibile, una famiglia di due donne e un figlio, con una madre biologica e l’altra adottiva. Nella vita vera non accade spesso, e sono consapevole delle difficoltà. Ma credo fosse importante dar loro l’opportunità di cambiare il proprio destino. La vita spesso è dura, ma come filmmakers abbiamo questa possibilità, pur non essendo degli ingenui: bisogna creare un mondo «reale», plausibile per i personaggi che lo abitano. Possiamo dar vita a uno spazio-tempo che abbraccia una piccola parte delle loro vite, dei momenti in cui sono potuti essere felici. Nella realtà, in Spagna, ci sono molte madri che cercano i loro figli, e quello che noi possiamo fare è offrire questa capsula in cui immaginare una possibilità spesso diversa dal solito.
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