Viaggio sulla luna cercando il futuro che non c’è
Al cinema In «First Man» Damien Chazelle racconta la storia di Neil Armstrong tra famiglia e training spaziali, fino allo sbarco con la leggendaria missione Apollo 11, ma predilige la sfera privata in cui riflette il sentimento del nostro tempo
Al cinema In «First Man» Damien Chazelle racconta la storia di Neil Armstrong tra famiglia e training spaziali, fino allo sbarco con la leggendaria missione Apollo 11, ma predilige la sfera privata in cui riflette il sentimento del nostro tempo
Non c’è nulla di eroico nel Neil Armstrong di Damien Chazelle, pure se il nome è una leggenda, il primo essere umano a mettere piede sulla luna, a volare nello spazio, a rendere «reale» un sogno di secoli, l’immaginario di poeti e lunatici che lassù, su quel punto luminoso proiettavano fantasie, creature misteriose, viaggi, maree, amori (e cervelli) perduti. Mentre l’America – grazie a lui – affermava ancora una volta la sua grandezza agli occhi del mondo. Poco importa se poi altre leggende hanno insinuato persino il dubbio che fosse tutto un «fake».
In fondo: è cambiato qualcosa davvero? La conquista ha aperto un nuovo orizzonte per l’umanità o piuttosto il gesto costoso – pagato a prezzo di vite prima che di denaro – di una supremazia utile a mettere in sordina qualcos’altro? L’ennesima frontiera, un altro mito, e poi? In fondo la luna è più bella vista da lontano di quel deserto di sassi polverosi. Trying to Kiss the Moon.
First Man – Il primo uomo, film di apertura di Venezia 75, da oggi in sala – in cui il regista di La La Land (sei premi Oscar) ritrova Ryan Gosling (nel ruolo di Armstrong) insieme alla a Regina Elisabetta di The Crown Claire Foy – è una storia popolare che emoziona, appassiona, commuove con l’intelligenza di celare tra le sue immagini un sentimento contemporaneo, che sposta gli anni Sessanta in cui si svolge al nostro tempo.
CHAZELLE, che ha lavorato sul libro di James R.Hansen non cerca l’epica del biopic celebrativo – Armstrong è morto nel 2012 e da quel 20 luglio, quando insieme a Buzz Aldrin sbarcò sulla luna il prossimo anno sarà il cinquantenario – ma sposta la narrazione sull’uomo Armstrong, e sugli anni che precedono la missione di Apollo 11. Sono le «pieghe» di un privato che lo interessano – il racconto si ferma infatti proprio al 1969 con il ritorno sulla terra – che poi è anche dove può mettere ciò che è suo, lo sguardo del presente in cui il futuro non esiste più. Non come almeno lo immaginavano quegli astronauti, con una strana innocenza nonostante tutto, nell’America degli anni ’60 da cui sembrano separati, «alieni», che nelle loro case entra solo attraverso le voci del bianco e nero della tv.
Tutto comincia nel 1961, nel deserto di Mojave in California, Armstrong lotta con l’atmosfera, il suo velivolo cade ma lui si salva. Ha una famiglia, la moglie compagna di università che – dirà poi a un’amica quando lui è già alla Nasa – voleva una vita normale, due figli, un bimbo e una bambina adorata, bionda e tenera, Karen. Ma la piccola è ammalata, ha un tumore, una cosa che nessun pianeta dovrebbe permettere: lui la veglia, la segue, annota le cure e le reazioni ma la malattia vince.
È ALLORA che decide di presentarsi alla Nasa, di entrare nel programma spaziale, c’è bisogno di gente brava e preparata, l’Unione Sovietica è in vantaggio, Gagarin, lo Sputnik, l’America rischia di perdere in immagine, devono vincere anche stavolta.
Nuova vita, altre casette tutte uguali col giardino di mogli e biscottini, controllo e nevrosi, figli che crescono, lacrime e lutti. I mariti sono via, presi da quella frenetica ossessione, le mogli aspettano, si arrabbiano, preservano quella barriera sottile tra gli uomini e la realtà. Armstrong è silenzioso, chiuso, le lacrime le nasconde, lunatico anche lui coi suoi improvvisi scatti, la ritrosia, la figlia che è sempre nel suo cuore di cui non ha parlato mai più con nessuno. È lei che lo spinge lassù, lei che col ditino indicava il cielo mentre la teneva in braccio? È lei che cerca come un nuovo Astolfo sul quel pianeta lontano, mentre fluttua nell’assenza di gravità tra le immagini di una vita, nel rewind dei ricordi che somiglia a un filmino familiare?
UN COMANDO della navicella è il ciuffo di capelli della bambina addormentata, i giochi insieme, la cura della sua fragilità. La sconfitta, il senso di colpa. L’America intanto cambia, esplode, c’è la guerra in Vietnam, i ragazzi bruciano la cartolina di chiamata all’esercito, marciano per i diritti civili, JFK e Robert Kennedy con le loro sfide democratiche vengono uccisi. Il programma della Nasa costa milioni di dollari, «l’uomo bianco va sulla luna» gridano gli african american, non ci sono astronauti neri. La luna e la sua conquista diventano una vittoria, l’America ce l’ha fatta, è grande, tutto il resto non conta. Come sempre. Ma forse anche le illusioni sono finite per sempre.
È un film pieno di malinconia First Man, lo era anche La La Land, nello scontro tra le sliding doors della vita ma qui a essersi perduto è qualcos’altro, l’idea di un cambiamento ancora possibile, di un futuro non solo spaziale o fantascientifico, di sfide e battaglie che possono trasformare il mondo. Sulla luna il protagonista non trova quello che cercava e il suo sguardo sperduto dietro al vetro della «quarantena» proietta la consapevolezza amara del nostro tempo.
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