Visioni

Viaggio senza fine sul fiume di «Apocalypse Now»

Viaggio senza fine sul fiume di «Apocalypse Now»

Incontri Parla Francis Ford Coppola, che al Festival del Cinema Ritrovato di Bologna presenta il Final Cut del suo capolavoro del 1979

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 29 giugno 2019

«Dopo il Padrino avrei potuto vivere tranquillamente continuando a girare gangster movie, ma nel corso della mia carriera ho scelto di non ripetermi facendo sempre lo stesso film». E infatti dopo quell’enorme e inatteso successo Francis Ford Coppola si imbarca in una nuova spericolata avventura: Apocalypse Now, che quest’anno compie quarant’anni e che il regista presenta in una nuova versione restaurata da American Zoetrope – Apocalypse Now- Final Cut, dopo l’«originale» del 1979 e il Redux del 2001 – al Festival del Cinema ritrovato di Bologna, dove ieri ha incontrato la stampa e il giorno prima, orgoglioso di definirsi non un maestro ma «studente fra gli studenti», i ragazzi che studiano cinema.

Molto dimagrito rispetto all’immagine che tutti hanno in mente di lui, senza più barba, dopo tanti anni dietro la macchina da presa Coppola è infatti ancora profondamente entusiasta nel parlare di cinema – cosa che fa senza risparmiarsi – e nel provare a immaginare quale possa essere il futuro di quest’arte. Certo del fatto che per quanto lo riguarda la sperimentazione non finirà mai: «Quando ho fatto Apocalypse Now ero in cerca di nuove strade, nuovi stili, con il pensiero che magari un giorno avrei trovato il mio». Apocalypse Now – Final Cut sarà nelle sale italiane il prossimo autunno distribuito dalla Cineteca di Bologna. 

Come è nata questa terza versione di «Apocalypse Now»?
Per celebrare il quarantennale mi è stato chiesto se avrei preferito proiettare al Tribeca Film Festival la prima versione o quella Redux. Ho sempre pensato che la prima fosse troppo corta: appena finito il film temevamo che la gente non avrebbe apprezzato una versione più estesa. La seconda invece è troppo lunga. Il progetto è nato in seguito all’uscita di Heart of Darkness (1991), il documentario di mia moglie Eleanor sulla realizzazione di Apocalypse Now. I registi che ci hanno lavorato insieme a lei hanno chiesto di avere accesso a tutto il girato. E col tempo si è diffusa la voce che il materiale tagliato fosse stato messo in circolazione – una cosa fastidiosa per me ma che invece pare abbia suscitato molto interesse, così i distributori mi hanno chiesto di realizzarne una versione più lunga, alla quale ho lavorato con Walter Murch (il montatore di Apocalypse Now, ndr). Harvey Weinstein – oggi non si può più neanche menzionare ma è comunque esistito – lo ha distribuito negli Stati uniti e in Europa, con un successo che non mi sarei aspettato. Ma Apocalypse Now Redux non è stato mai pensato come versione definitiva, è solo quella estesa. Per questa terza «variante» invece ho cercato di trarre il meglio da entrambe le precedenti, senza mai perdere di vista il tema del film, che si può sempre descrivere in una parola: nel caso del Padrino è la successione, nella Conversazione è la privacy. E in Apocalypse Now è la moralità.

Nel corso degli anni il travagliato lavoro dietro le quinte di quel film è diventato leggendario.
All’epoca facevo film senza ben sapere come, ma se si è capaci di osservare è il film stesso a «insegnare» il modo in cui deve essere girato. Quel fiume che attraversa tutto Apocalypse Now ha rappresentato un’avventura surreale anche per noi: l’unica cosa che posso dire con certezza del mio stile, del mio modo di lavorare, è che sono sempre pronto a imbarcarmi in un’impresa senza sapere come finirà. Ma la lavorazione di Apocalypse Now è stato un momento spaventoso per me: ho preso in prestito soldi che non avevo rischiando la bancarotta – con tutta la mia famiglia e della mia carriera. Inoltre all’epoca i tassi di interesse sul denaro preso in prestito erano del 29%, mentre oggi sono solo del 6%. Il mio più grande conforto però è sempre stata la famiglia, che portavo con me ogni volta che giravo lontano da casa per più di due settimane. È stata una cosa buona anche per i miei figli, che così hanno imparato come si fa un film. Sofia si faceva cucire i vestiti delle bambole dalla costumista.

Come vede il futuro del cinema in un’epoca in cui la sala perde sempre più la sua centralità?
Pensiamo di conoscere cosa sia il cinema, ma in realtà non lo sappiamo. Lo stesso romanzo, nel quale non c’è tecnologia, è cambiato immensamente dai tempi di Cervantes a quelli di Virginia Woolf. Il cinema invece per metà è tecnologia, e oggi il digitale rende possibili cose che non si potevano neanche immaginare nel «vecchio» cinema. Negli anni venti Murnau disse: «Il sonoro doveva arrivare, ma è arrivato troppo presto» – all’epoca stavano imparando così bene a raccontare con le immagini che era un peccato interrompere quella sperimentazione. E lo stesso si può dire oggi, ma non è la fine di nulla: è solo un nuovo inizio. Il vero problema del cinema attuale sono le major che vendono senza sosta lo stesso film, pensato solo per fare soldi. Riflette lo stato vergognoso in cui si trova la nostra civiltà. Come l’assurdo governo degli Stati Uniti, del tutto disinteressato alla salute e alla felicità delle persone.

Lei ha lavorato anche a Cinecittà.
Una bellissima esperienza, ho solo due critiche da fare: non c’è la bandiera italiana e c’è troppa polizia. E il Centro sperimentale andrebbe portato dentro Cinecittà: la prospettiva dei giovani è fondamentale. Un’inevitabile condizione della natura umana porta tutte le istituzioni (e le persone) affermate a essere cieche di fronte alle nuove possibilità, che invece i giovani sanno vedere. Penso a un film come I pugni in tasca di Marco Bellocchio: nessuno capiva come avrebbe potuto essere una storia da raccontare, gli avranno probabilmente detto che era un’idea terribile. L’arte richiede il rischio, e per questo i giovani sono essenziali: vedono cose che noi non possiamo vedere.

Da tempo si parla di un suo nuovo progetto, «Megalopolis», ci sta lavorando?
Mi piacerebbe, ma si tratta di un film molto «grande» e mi è difficile trovare persone – produttori, attori… – che lo vogliano fare. È lo stesso problema che ho avuto con Apocalypse Now: tutti vogliono sapere come andrà a finire, quale sarà il risultato. A me invece va bene imbarcarmi in un viaggio di cui non conosco l’esito: non ho bisogno di sapere che ci sarà un happy end.

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