Paolo Giordano l’ha definito un libro «vorticante», non riassumibile, un accumulatore di idee da cui se ne irradiano altre intorno all’opera, altrettanto inclassificabile, di Kiefer. È Prologo celeste (Einaudi, pp. 376, euro 36), il nuovo libro di Vincenzo Trione, critico d’arte, docente alla Iulm di Milano, direttore dell’Enciclopedia Treccani dell’arte contemporanea. La corposità del volume (che comprende anche una settantina di immagini) non deve tuttavia spaventare il lettore (sempre più impigrito) poiché la sua scrittura, densa e avvolgente, lo trascina, come fosse un thriller fino all’ultima pagina. Trione, piuttosto che inabissarsi in una solita e insopportabile biografia d’artista, architetta un espediente spurio che lo proietta in una dimensione esperenziale, unica e assoluta, che è un viaggio sebaldiano, fisico e mentale, nell’atelier di Anselm Kiefer (Donaueschingen, 1945) per «perdersi» nella sua fabrica quasi inaccessibile.

DISLOCATA tra Barjac (in Occitania) e Croissy (nell’ Île-de-France) dove dagli anni 90 il transplanté artista organizza una impressionante e ciclopica dualità logistica. A Barjac (una antica seteria di 350mila mq, ora ristrutturata in tre livelli compresa una rete di tunnel sotterranei che li collegano) custodisce le sue opere e quelle di altri artisti (Export, Bonvicini, Laib, Laurie Anderson, Anselmo), mentre Croissy di 36.000 mq («È una sorta di modello del mio cervello», afferma l’artista) è un colossale lieu de réflexion, ripartito in due padiglioni (Ninsun e Enkidu) in cui, sinapticamente, esperisce e lavora tra l’Arsenale e la Biblioteca.

QUEST’ULTIMA, una estasiante Wunderkammer, agglomera un oceano di libri, archivi fotografici e di immagini (con un evidente pensiero alla mirabile Mnemosyne di Aby Warburg) che sugella il momento della idea iniziale: «Io non dipingo mai per realizzare solo un dipinto. Per cominciare una scultura o un quadro ho bisogno di uno choc».

GLI SPAZI, MONUMENTALI, onirici e psichici entrambi, sono sintomatici di un «danno» passato che si protrae e si incapsula nel presente. L’obiettivo dell’autore dunque non è quello di fare un’agiografia dell’artista, piuttosto di esplorarne la sua incommensurabile galassia. Che piaccia o no l’opera kieferiana non ha importanza, ciò che dal libro esala è la magneticità del pensiero dell’artista che apre a digressioni sull’arte contemporanea, sul sentimento, sull’empatia e sull’alienazione. Sull’oscurità e sul chiarore. Sulla disciplina e sull’iconoclastia. Sul senso di essere dentro l’art system ma abissalmente lontano dal compiacimento mediale e dalle sue strategie funzionali. E di questo osannato artista, Trione predilige scoprirne la sua liturgia e la sua essenza molteplice artistica, filosofica, letteraria, la dimensione del fallimento tra i fallimenti (Kiefer scrittore mancato è il reverse di Orhan Pamuk, artista mancato), la sua cerebralità, l’epicità, la irrequietezza formale, la profanazione, la riprogettualità.
La scrittura di Trione, piena di liaisons, rimandi e intrecci letterari e filosofici, arricchisce, delucida e introduce complessità alla stereotipata lettura dell’artista tragico, figlio della sciagurata seconda guerra mondiale «Tra i 3 e i 5 anni giocavo tra le rovine dei bombardamenti, non avevo nient’altro. Solo mattoni», al suo irrisolto conflitto con la Germania, fin dagli anni 70 ai tempi delle sue provocatorie azioni Besetzungen (Occupazioni) mai digerite dalla critica tedesca, che lo inducono a emigrare in Francia.

KIEFER È UN ARTISTA saturnino, che si richiama a saperi molteplici (astrofisica, filosofia, mistica, scienza, biologia, alchimia, miti esoterici, babilonesi). La sua è la prolegomeni di una distruzione, fisica e morale che lo porta a «frugare nelle ferite e creare le ferite», a scomporre per non ricomporre, attraverso il recupero o la polverizzazione di materie come carbone, paglia, piombo, cenere, sabbia, polvere, zinco acciaio, minerali, rottami di aeroplani, libri, stufe, macchine da cucire, silicone, foglie d’oro e la parola scritta. E come Trione evidenzia, «non agisce da lacché del quotidiano, lontano da tanti artisti contemporanei che tendono ad assimilare il proprio mestiere al giornalismo d’inchiesta o all’attivismo». Poiché gli artisti come Kiefer sono sovrastorici, vivono fuori dalle categorie e dagli impeti delle mode e, come nella immagine della cover Sternenfall – Stelle cadenti (1995) si proiettano verso il cosmo, distesi, sotto il cielo stellato, kantiano.