Diversi elementi fanno di Heiner Müller Tre paesaggi uno degli spettacoli in assoluto «migliori» di quelli visibili in questa stagione. Intanto per il luogo dove quei Tre paesaggi hanno trovato casa e ambiente ideale: la meravigliosa Villa Piccolomini sull’Aurelia antica, che resta uno dei pochissimi presidi della vita teatrale e dei suoi attori (nonostante il comportamento vergognoso delle istituzioni, primo tra tutti il comune, che lucra sui suoi spazi senza pagarne da tempo neppure il simbolico affitto).

Poi sicuramente c’è da festeggiare il ritorno sulle nostre scene dei testi di Müller, esplosivo e meraviglioso drammaturgo che meglio di tutti ha cantato l’ultimo passaggio di secolo, comunista senza nascondersene i vizi devastanti nella sua Ddr, e insieme poeta dolcissimo che trasforma in paesaggi non solo le mitologie d’ogni tipo, ma i sentimenti che ognuno ha il diritto di mantenervi.

Ultimo elemento notevole, ma non certo per importanza, l’ensemble di artisti che ai tre episodi danno corpo, vera rivelazione per essere quasi tutti allievi ancora al secondo anno dei corsi dell’Accademia Silvio D’Amico. Giorgio Barberio Corsetti, chiamato a coordinare il lavoro di questo gruppo di registi e attori, offre lui stesso una prova d’invenzione smagliante, fantasiosa eppure coerente con la poetica di Müller, a cavallo del famigerato Muro che anche lo scrittore vide cadere. I tre pezzi si snodano in spazi diversi della villa (ma una nuova edizione è già prevista a Spoleto festival dal 13 al 16 luglio prossimi). Si inizia nelle serre, con il frammento che per primo rivelò al pubblico italiano l’autore tedesco: Paesaggio con Argonauti fa parte infatti di quella trilogia attorno a Medea e le sue violenze, subite e perpetrate dalla temibile donna della Colchide. La scena è un’acqua limacciosa in cui galleggiano corpi vaganti, mentre la protagonista spiega e progetta ragioni e colpe, tutte dovute a una problematica d’amore, in bilico tra potere bruto e debolezza di sentimenti.

Lo spettacolo appare oggi più impressionante (ma forse è solo per la maggiore consapevolezza dello spettatore) di quello firmato da Karge e Langhoff negli anni 80 alla Biennale veneziana. Su un’altra parete sta un muro terrificante: dai suoi mattoni escono membra umane, dai suoi cassetti cadaveri che evocano violenze, sempre legate al potere, che arrivano a trasformare i figli in poltiglia commestibile, come già Medea. Siamo alla corte shakespeariana di Tito Andronico, cui il giovane interprete riesce a dare densità e capacità progettuale come raramente si è visto, pur in una geometrica rarefazione dell’orrore.

È la caduta di Roma e del suo impero, ma l’ascendenza elisabettiana non dissimula riferimenti molto più recenti, al contesto di Stakanov e Mauser (altri titoli mulleriani) che nella Ddr di Ulbricht non possono che essersi esasperati, fino a depredare totalmente, come recitava un film famoso, perfino Le vite degli altri. Nuovo cambio di scena, perché in una sorta di tabarin si consuma la tragedia «ridicola» di Hamletmaschine, con birra e noccioline offerti al pubblico, e attori di straordinaria presenza che ballano e cantano, ma soprattutto si fanno ascoltare senza mandare perso un briciolo di quelle parole. Gertrude come Ofelia, Claudio come Amleto, Polonio come Orazio snocciolano una ronde disperata che pure vuol risalire alla radice della complessità umana.

Anche qui violenze e seduzioni, inestricabili tra loro. Le divise militari evocano il nazismo, ma qualcuno può pensare ai vopos. Un percorso stregato, quasi misterico, ma che apre gli occhi come raramente avviene a teatro, a voler leggere e interpretare senso e violenza attorno a noi.