Non solo la voce di José Saramago rende inconfondibili le sue pagine – fatte di una fluida convivenza all’interno delle stesse frasi di descrizioni e dialoghi, senza segni di stacco a scandirli – ma ne determina la specificità anche la traccia più o meno nascosta che si fa largo nelle sue trame e che nasce dall’intrico di fatti biografici, rielaborazioni della Storia, e esigenze di velare più o meno metaforicamente le sue istanze di giustizia sociale. Non a caso, come si legge in una delle molto utili Lezioni italiane (a cura di Giorgio De Marchis per La nuova frontiera, pp. 156, euro 16,90) lo scrittore portoghese rivendica «l’insignificanza» dei suoi personaggi, il loro appartenere alla gente comune, senza caratteri specifici a connotarli, nemmeno come forti presenze romanzesche. E questo perché, semplicemente, quegli anti-eroi somigliano alle persone che Saramago ama frequentare, persone a loro volta idealmente evocative dei suoi familiari, e tra loro di quel nonno contadino che alla vigilia di un suo ricovero in ospedale pensò bene di congedarsi dagli alberi del giardino, abbracciandoli uno a uno.

CIÒ CHE PIÙ INTERESSA il romanziere portoghese quando è alle prese con la rivisitazione della Storia sono le vicende minute di uomini e donne, la cui mediocrità sarebbe garanzia di oblio, e le cui biografie si dissolverebbero nel tempo, se non ci fosse, predisposta per alcuni di loro che funzionano da emblemi di una felice qualunquità, una rete romanzesca nella quale restare impigliati. Qualcosa di simile, ovvero la scelta di guardare alla storia «dal basso» di una prospettiva che ha per protagonisti uomini e donne inosservati, guidò anche il poco più giovane Günter Grass nella sua scrittura dei cento racconti che compongono Il mio secolo, e che colgono ognuno un fatto minore del ‘900, mentre i grandi eventi che scandirono la Storia passavano, sotto la sua penna, in secondo piano.
Spesso recensito come un romanziere storico, Saramago chiarisce nella lezione titolata «Storia e narrazione» come proprio la sua immersione nel presente lo abbia portato a guardare in direzione del passato, «non come un rifugio» ma come una necessaria risalita alle fonti di ciò che si manifesta sulla superficie dell’oggi. Storia e romanzo sono, del resto, per Saramago, «espressioni della stessa inquietudine degli uomini… che, mentre tentano di svelare il volto nascosto del futuro, si ostinano a cercare nella nebbia del tempo il passato che costantemente sfugge loro e che oggi, forse più che mai, vorrebbero integrare nel presente…».
L’introduzione dei fatti realmente accaduti in un tessuto di finzione può essere, secondo Saramago, sbilanciato più verso la Storia o più verso l’inventiva, senza perciò andare a costruire universi incomunicanti, ma anzi trovando una armonia narrativa nella combinazione degli elementi di un romanzo. Dove la provocazione al lettore, necessaria a attivare la sua partecipazione interpretativa, passa attraverso il filtro dell’ironia, che a sua volta contempla il gioco di negare ciò che prima era stato detto, portando «a percepire nella mente una sensazione di dispersione della materia storica nella materia narrativa», entrambe riorganizzate in una nuova tessitura.

DI GRANDE UTILITÀ, come anticipa Giorgio de Marchis nel suo testo introduttivo, è la lezione titolata Dalla statua alla pietra, dove Saramago dispensa generosamente interessanti elementi che riguardano la genesi di alcune sue opere, consentendone una lettura più consapevole, ora che a cent’anni dalla nascita Feltrinelli sta ripubblicandone i romanzi. Per tutta la sua parabola narrativa compresa tra il Manuale di pittura, che è del 1977 fino al Vangelo secondo Gesù Cristo, del 1991, Saramago considera di avere scritto come dovesse rendere conto della superficie di una statua; solo con Cecità cominciò il suo scavo nella pietra, ovvero «nel più profondo di noi stessi», in un «tentativo di chiederci cosa siamo», che avrebbe trovato altri suoi vertici nei romanzi immediatamente successivi, Tutti i nomi e La caverna.