Viaggio da Grenada allo schiavismo del XVIII secolo
Narrativa Intervista con Jane Harris, l'autrice irlandese di «Sugar Money», pubblicato da Neri Pozza
Narrativa Intervista con Jane Harris, l'autrice irlandese di «Sugar Money», pubblicato da Neri Pozza
Lucien e suo fratello Emile sono schiavi creoli al servizio dei Frères de la Charité, un gruppo di frati che grazie ai proventi di una piantagione di canna da zucchero, destinata alla produzione di rum, gestiscono un ospedale a Saint-Pierre, sull’isola francese della Martinica. È il 1756 quando l’ambiguo padre Cléophas incarica i due di recarsi nella vicina Grenada, appena occupata dagli inglesi, per «riportare a casa» quarantadue schiavi che lavoravano già alle loro dipendenze. Una missione in apparenza facile – tra Londra e Parigi vige in quel momento un accordo di pace – ma che si rivelerà pericolosa e piena di insidie, al punto da mettere in gioco perfino i sentimenti che legano i due protagonisti.
Dopo aver descritto, in Le osservazioni e I Gillespie, contraddizioni e intrighi dell’epoca vittoriana e della società scozzese di quel periodo, Jane Harris propone ora con Sugar Money, pubblicato come i precedenti da Neri Pozza (pp. 320, euro 17,00), una riflessione sullo schiavismo nel XVIII secolo, attraverso una galleria di personaggi e atteggiamenti di sconcertante attualità.
Nata a Belfast e cresciuta a Glasgow, già autrice di sceneggiature per il cinema e con un’esperienza di lavoro di scrittura tra i detenuti della prigione di Durham, Harris vive da tempo nella zona orientale di Londra e dice di ispirarsi all’opera di Robert Louis Stevenson, autore – fra l’altro – dell’Isola del tesoro.
I suoi romanzi precedenti indagano l’età vittoriana partendo da elementi di fiction. In questo caso tutto nasce invece da una storia vera. È così?
È cominciato tutto con un viaggio. Ero sempre stata attratta da Grenada e dai Caraibi francesi ma un po’ per mancanza di soldi, un po’ per la mia paura di volare avevo sempre rinunciato. Alla fine, proprio grazie ai guadagni frutto dei miei primi libri, ho deciso di concedermi una vacanza da quelle parti. Così, prima di partire ho cominciato a leggere diverse cose sull’«isola delle spezie» e in un libro mi sono imbattuta nella storia di uno schiavo che aveva guidato una spedizione per sottrarre altri schiavi ai nemici dei suoi padroni. Una volta arrivata a Grenada, insieme a una guida esperta ho attraversato a piedi l’isola e una sera, mentre osservavo il tramonto scendendo verso la città di Saint George, l’antica Fort Royal, mi sono chiesta se quegli schiavi avessero mai avuto il tempo di contemplare quella stessa vista. In quel momento ho capito che avrei scritto la loro storia.
La voce narrante del romanzo è Lucien, che a causa delle frustate ha la schiena «sormontata da un’isola di cicatrici, una mappa della tirannia». È la sorte toccata a questi giovani schiavi, lui come suo fratello Emile, ad aver attirato la sua attenzione?
Tendo a scrivere di personaggi che stanno ai margini della società, i poveri, gli «altri», i senza voce. E sono anche molto attenta all’idea di giustizia. Per questo quando ho letto di un individuo che nelle cronache dell’epoca veniva descritto semplicemente come «schiavo mulatto», un giovane dal coraggio incredibile che si è impegnato a compiere quella che sembrava una missione impossibile, non potevo che rimanere affascinata. C’era un desiderio di libertà in quella determinazione che meritava di essere raccontata. Ho cercato perciò di essere il più rispettosa possibile di tutti quegli uomini, donne e bambini che erano costretti nella condizione di schiavitù. Durante le mie ricerche, ho trovato un elenco degli schiavi che avevano lavorato nell’ospedale dell’isola intorno al 1760 e, nel tentativo di onorare in qualche modo la loro memoria, ho usato la maggior parte di questi nomi per i personaggi principali di Sugar Money.
A cominciare dai Frères de la Charité che utilizzano gli schiavi per sostenere il loro ospedale, nel libro l’oppressione dei bianchi ha sempre un volto ambiguo dove bene e male si intrecciano.
È così anche nella realtà, le persone sono piene di contraddizioni e personalmente preferisco creare dei personaggi complessi piuttosto che delle maschere che incarnino questo o quel sentimento. In questo caso, però, volevo anche sottolineare come lo schiavismo riguardasse un intero sistema sociale. Una sorta di «banalità del male» che prendeva forma nella dimensione quotidiana e diffusa delle atrocità perpetrate. Ora ci sembra un’ipocrisia impensabile il fatto che un gruppo di cosiddetti «uomini pii», di religiosi, potesse comprare e vendere altri esseri umani per finanziare le proprie «opere buone». Ma all’epoca la proprietà degli schiavi era vista come normale. I proprietari delle piantagioni non erano considerati né inumani né mostruosi. Del resto, ancora oggi, in quanti sono pronti ad accettare quotidianamente il razzismo, il sessismo o l’omofobia?
Le sembra che questa storia dimenticata finisca per avere una sinistra attualità?
Dopo la Brexit e l’elezione di Trump, senza dubbio. Nell’ultimo anno questi due avvenimenti drammatici e scioccanti non hanno smesso di interrogarmi. Come abbiamo lasciato che accadesse? Significa che in due tra i più importanti paesi dell’Occidente ci sono abbastanza persone da sostenere una linea politica di destra così aggressiva. Ancora una volta, questo significa che il razzismo non appartiene al passato. E non solo. Neppure la schiavitù è una cosa d’altri tempi. Attualmente nel mondo ci sono ancora circa quaranta milioni di persone intrappolate in una specie di schiavitù, che si tratti di lavoro forzato, matrimoni combinati, commercio del sesso, tratta di esseri umani, lavoro minorile e altri sono imprigionati dal debito. Condanniamo lo schiavismo del passato, ma spesso giriamo la testa dall’altra parte rispetto a quanto accade oggi.
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