Una lunga apnea celeste in cui perdersi e abbandonare il vano desiderio di capire: musica da sentire nelle viscere, che cancella le vane pretese della lingua di dire e chiede solo, come scriveva il poeta messicano Octavio Paz, di chiudere gli occhi e aprirli verso dentro. Arditti Quartet esegue Stefano Scodanibbio: si spalancano mondi. Cieli, terre e abissi danteschi dove veniamo guidati da corde e archetti che frugano in ogni angolo possibile di un cosmo oscuro, attraversato da improvvisi bagliori: qualcosa che somiglia al suono di un inizio universale. I tre episodi di Visas, tra avvisaglie, avvertimenti, veglie e saliscendi in un’aria tesa e rarefatta che sfuma in un infinito punto interrogativo: si trattiene il respiro al cospetto di demoni beffardi che salutano il Novecento. «Aprirsi all’erranza, allo sbilanciamento»: così lo stesso Scodanibbio in Non abbastanza per me, Scritti e Taccuini, pubblicato da Quodlibet nel 2019.

L’ASCOLTATORE si ritrova esattamente, perdutamente a vagare tra paesaggi mutevoli e labirinti dei quali si dimentica l’ingresso, come in un’esperienza che serbi i caratteri dell’archetipo, del mito. Intanto a tratti appaiono bagliori e seguiamo l’ombra di un profilo che sfugge non appena accenna a prendere forma. Tra smarrimento e nitore ci addentriamo sempre più in un mondo sconosciuto eppure familiare, popolato di figure che ci chiamano. Lugares que pasan ha un che di elegia, a cantare sommessamente, in insondabili profondità, quello che Mario Gamba nelle note del libretto definisce «il desiderio di una impossibile infinita felicità». La ricerca e il viaggio proseguono, non può essere altrimenti, con ulteriori tre episodi, Altri Visas, risalenti al 2000, con una citazione dello scrittore cubano Josè Lezama Lima. Da una lettera del già citato Octavio Paz: «Leggo Paradiso (il capolavoro di Lima, ndr) a poco a poco, sempre più abbagliato e stupito.

Un edificio verbale di ricchezza incredibile, o meglio, non un edificio ma un mondo di architetture in continua metamorfosi e, anche, un mondo di segni – suoni che si configurano in significati, arcipelaghi del senso che si fa e si disfa – il mondo lento della vertigine che gira intorno a quel punto intoccabile che si trova tra la creazione e la distruzione del linguaggio, quel punto che è il cuore, il nucleo del linguaggio».

Mutatis mutandis, queste parole risuonano con queste cattedrali di suono: il compositore e contrabbassista maceratese nel suo breve passaggio sul pianeta (è scomparso nel 2012 a soli cinquantasei anni) è stato capace di indicare la via per altre dimensioni e i quartetti racchiusi in questo scrigno delle meraviglie ne sono vivida testimonianza. Inutile indugiare sulla maestria della formazione, composta da Irvine Arditti e Ashot Sarkissjan ai violini, Ralf Ehlers alla viola e Lucas Fels al violoncello. Su questi passi nell’indicibile è lo stesso Scodanibbio ad esprimersi: «Alla fine non si è che all’inizio perché la terra che si credeva di conoscere, forse, è tutta da esplorare». Infine si esce a riveder le stelle con i cinque imprendibili pezzi intitolati Mas Lugares (in spagnolo altri luoghi), su Madrigali di Monteverdi e dedicati a Luciano Berio.

UN PRODIGIO dove musiche scritte cinquecento anni fa vengono abitate dai fantasmi dell’attualità in un gioco di echi, specchi, riscritture, traduzioni e tradimenti che ha del miracoloso. Frutto di un percorso ideato da Area Sismica e dalla Rassegna di Nuova Musica di Macerata questo è un disco destinato a restare nel tempo, capace di restituirci alla gioia e allo stupore, di farci respirare aria che sa di altrove.