Viaggio al termine dell’interregno
Mario Candeias Un'intervista con il direttore dell’Istituto di analisi sociale della Rosa-Luxemburg. «Esistono varie forme di capitale. Capire questo serve a una riorganizzazione della prassi politica»
Mario Candeias Un'intervista con il direttore dell’Istituto di analisi sociale della Rosa-Luxemburg. «Esistono varie forme di capitale. Capire questo serve a una riorganizzazione della prassi politica»
Bussare alle porte, ritornare nelle strade e nei quartieri e intercettare i bisogni e i desideri di uomini e donne. Soltanto così è possibile riformulare nuove pratiche di azione politica che possano realmente incidere nel tessuto sociale. È questa la posizione di Mario Candeias, direttore dell’Istituto di analisi sociale della Rosa-Luxemburg Stiftung di Berlino, nonché «scienziato» della politica, studioso del capitalismo finanziario e delle nuove forme di organizzazione sociale.
Dopo la sua partecipazione alle giornate romane del C17 -il convegno dedicato al comunismo -, lo abbiamo incontrato a Berlino, per chiarire meglio i temi di cui si occupa. «La prima cosa che si deve comprendere è che non è più possibile parlare di Capitale in senso generico».
Che cosa intende dire?
Questa fase neoliberista rappresenta un nuovo assetto della produzione economica, che rende obsoleti tutti i modelli di organizzazione politica a cui eravamo abituati. Ci si deve muovere in un contesto di assoluta disgregazione e frammentazione sociale, e si deve capire che oggi non esiste una cosa come «il Capitale». Esistono piuttosto varie forme particolari di capitale, ognuna con la sua specificità. Comprendere questo è fondamentale per una riorganizzazione della prassi politica. Vediamo nascere molti movimenti sociali e politici che vanno in direzioni diverse, spesso imboccando derive populiste, che possono essere rischiose.
Populismo, però, che si configura sempre più come l’esito nefasto cui vanno incontro le democrazie odierne…
Parlando di populismo si rischia sempre di essere fraintesi. Non lo reputo di per sé un qualcosa di dannoso: è un elemento fisiologico di qualsiasi forma di vita democratica. Credo soprattutto che si debba fare una differenza fra un certo tipo di populismo, che io preferisco definire come una «fascistizzazione dei rapporti sociali», e una differente pratica di organizzazione popolare, che è un qualcosa di assolutamente diverso, perché non si basa sul carisma dell’uomo forte, ma anzi utilizza elementi del populismo con l’obiettivo di diffondere nelle persone l’esigenza di autorganizzazione.
Un populismo di sinistra?
In parte sì. Bernie Sanders ha mostrato come il populismo può assumere tratti progressisti. Il suo merito è stato quello di parlare alle persone e capire che ai loro desideri e ai loro bisogni si possono dare delle risposte; e così ha parlato di socialismo, sebbene in modo molto basilare.
Quel che conta, tuttavia, è che in uomini e donne esiste un bisogno e un desiderio di un qualcosa come la pratica comunista. Certamente non la chiamano così. Eppure i loro bisogni e i loro desideri sono un qualcosa che si avvicina molto a quello che noi conosciamo come pratica comunista. Perciò credo che fare un passo indietro, tornare nelle strade e intercettare questi bisogni e questi desideri sia l’unico modo per rimettere al centro del dibattito politico le questioni sociali.
Questioni sociali che, tuttavia, sembrano essere sempre più una prerogativa delle destre nazionaliste. Esempio è la stessa Berlino dove, alle ultime elezioni per il rinnovo del parlamento cittadino, la AfD ha raggiunto il 14%. Come si deve leggere questo fatto?
Non voglio negare il problema, ma anche Die Linke, il partito in cui milito, è cresciuta qui a Berlino, ottenendo il 15%. La destra non è l’unica ad avere una «social-agenda». Se anzi si guarda ai loro programmi politici, sono orientati esclusivamente ad una politica nazionale, non sociale. Parlano di reddito minimo e di diritto alla casa, ma molte fasce della popolazione non sono incluse, e non sono soltanto i migranti e i rifugiati, ma le minoranze in generale. Sono politiche escludenti, non sociali. Ritornando nei quartieri, bussando alle porte e parlando con le persone, ci si rende conto che sono loro stesse ad aprirsi, ad esprimere i loro bisogni e i loro desideri. Ed è su questa base che i partiti di sinistra dovrebbero costruire i loro progetti politici.
Per troppo tempo la Spd ha condotto politiche che relegavano la questione dei diritti sociali ad un discorso puramente parlamentare, e in questo modo si è diffusa l’idea che la sinistra non si occupa più di questioni sociali. E si demolisce anche il senso di fiducia che le persone hanno nei confronti della democrazia, perché si scollegano le istituzioni democratiche dai bisogni reali e concreti delle persone, che sono ben coscienti del fatto che non esiste una effettiva democrazia.
Questa coscienza ci fa tuttavia capire che «democrazia» è ancora una parola che veicola un bisogno di emancipazione…
Assolutamente si, ma a patto che si cerchi di decostruire l’idea stessa di democrazia. Credo che se ci si limita a considerare il termine «democrazia» soltanto nel suo aspetto liberale, soltanto dal punto di vista dei diritti formali, si vada inevitabilmente incontro ad una banalizzazione della democrazia stessa. Si finisce per ridurla ad un sistema astratto di parametri rispetto ai quali democratico è quel sistema di governo che riesce a garantire formalmente un certo tipo di diritti alle persone. Ma questo non è abbastanza, perché restano irrisolti tutti quei condizionamenti sociali che impediscono l’effettivo godimento di quegli stessi diritti.
La democrazia è prima di tutto una questione sociale. E riportare la democrazia sul terreno dei diritti sociali significa anche darle un corpo, un esito materiale e concreto. Per cui le nuove forme di organizzazione politica dovrebbero tentare di utilizzare questa assenza di democrazia contro la democrazia stessa.
In una lotta per la democrazia le libertà liberali non sono certamente da escludere, ma non si può pensare di potersi limitare solo a queste, e ci si deve occupare soprattutto di questioni sociali, delle libertà sociali che si realizzano concretamente nella vita quotidiana. È questo l’unico modo per rendere la democrazia una reale esperienza vissuta e non soltanto un principio formale, per quanto possa essere universalmente giusto. Non ha molta importanza avere la libertà di votare o di prendere posizione ai dibattiti politici, se poi questa stessa libertà non si concretizza in un’esperienza vissuta.
Ritorna la questione sulla possibilità di una governamentalità socialista…
È un discorso complesso perché bisogna tenere conto del margine di autonomia della politica rispetto all’economia. Se il capitale oggi è sempre più diversificato, è altrettanto vero che esiste una classe capitalistica transnazionale che controlla le politiche ad un livello sovrastatale. Questa classe transnazionale, per intenderci, è la stessa che si è opposta in tutti modi alla Brexit, provando a tenere l’Inghilterra nella Ue. Episodi come la Brexit sembrano lasciar propendere per una autonomia dello Stato dal Capitale. E tuttavia si deve sempre tenere presente che si tratta di un’autonomia relativa e non assoluta. Se non si tiene conto di questo si sfocia inevitabilmente in soluzioni autonomiste di tipo nazionalistico, o autoritario.
Onestamente non saprei se una governamentalità socialista sia possibile. La domanda foucaultiana è, se vogliamo, la stessa domanda che si pose Gramsci rispetto all’egemonia. Io credo che una base di partenza per affrontare oggi questa risposta sia quella di aggiornare pratiche politiche in grado di modificare i rapporti egemonici nella società di oggi, ovvero modificarne le relazioni di potere che sono oggi in atto.
C’è chi vede emergere nuove pratiche incentrate sulla collettività nella sempre maggiore diffusione di forme di economia collaborativa. Quanto queste forme di «sharing economy» sono autonome dal sistema capitalistico?
Non credo che la sharing economy debba essere vista solo come uno strumento del capitalismo. Provo sempre simpatia nei confronti di nuove iniziative pratiche, sia in ambito politico che in ambito economico, perché credo che comunque riescano a creare connessioni fra le persone.
Certo, queste forme economiche sono integrate al sistema capitalistico, e c’è il rischio che possano contribuire a crearne un nuovo assetto. Ma possono rappresentare anche un modo per istituire nuove pratiche sociali: pensiamo a progetti di crowdfunding e di coworking, che hanno un impatto e una funzione sociale molto importante, proprio perché riescono a venire incontro a bisogni concreti. È sempre a partire dall’interpretazione dei bisogni delle persone che si deve cercare di orientare un programma di azione politica.
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