Riunione lampo, nessun dissenso: in meno di due ore il governo licenzia il decreto che proroga il sostegno all’Ucraina incluso l’invio delle armi, «previo atto di indirizzo delle camere», e anche quello che salva la Isab-Lukoil di Priolo. Con le spalle coperte da un pronunciamento largamente maggioritario della Camera, il governo vara dunque a spron battuto il decreto ad hoc, dopo aver rinunciato a quel goffo e inutile blitz che aveva scelto in un primo momento: cangurare una scelta comunque molto importante come emendamento al dl Calabria. Non sarà così. Le camere discuteranno su un testo specifico al momento della conversione del decreto ed esprimeranno quell’atto di indirizzo che lo stesso dl indica come necessario. La discussione non arriverà però in tempi brevi ma probabilmente a gennaio, essendo i tempi della legge di bilancio già sin troppo compressi.

La forma, che in democrazia non è un orpello, è cambiata. La sostanza no. Il decreto ricalca fedelmente quello di Draghi, anche nei suoi punti critici e più discutibili. Il Parlamento sarà informato attraverso il Copasir ma, una volta convertito il decreto, non dovrà più votare nuovi invii di armi. Ci saranno certamente informative parlamentari, e la prima potrebbe essere il 13 dicembre, ma depotenziate dall’assenza di voto. È su questo punto che si smarca e martella il Movimento 5 Stelle, che non si è schierato nettamente contro l’invio di nuove armi come il gruppo Si-Verdi ma chiede che ogni invio sia preceduto da un voto delle Camere.

È molto improbabile che il governo accetti. La Lega e in parte anche Forza Italia hanno ingoiato un boccone amaro, consapevoli di non poter fare diversamente. Su uno schieramento atlantista senza un pur minimo distinguo la premier ha scommesso tutto. L’intera credibilità del suo governo oltre confine, nella Ue ma a maggior ragione a Washington, dipende dalla sua capacità e determinazione nel tenere a bada i dissensi latenti nella maggioranza sull’adesione piena alle decisioni e alla strategia della Nato. Mettere oggi la questione delle armi sul tavolo significherebbe per un Matteo Salvini i cui consensi continuano a precipitare sfidare il rischio di una crisi di governo.

Ma quel che è vero oggi potrebbe non esserlo, o esserlo in misura minore, domani. È molto difficile che la presidente del consiglio accetti di correre periodicamente un rischio che può evitare grazie all’astuzia del governo Draghi, che aveva inserito quasi clandestinamente, nel marzo scorso, la norma che di fatto delegava per tutto l’anno all’esecutivo le decisioni. Giorgia Meloni deve solo continuare a battere la pista aperta dal suo predecessore a palazzo Chigi.

Il secondo punto critico riguarda il segreto su quali armi saranno fornite all’Ucraina. Il governo italiano, a differenza di altri Paesi inclusi quelli più impegnati negli aiuti come l’Uk, non è tenuto a informare il Parlamento ma solo il Copasir, in sedute secretate. È una scelta di Mario Draghi difficilmente comprensibile, come prova il fatto che persino la Gran Bretagna non ritiene pericoloso comunicare al Parlamento quali armi spedisce, e che il ministro della Difesa Guido Crosetto potrebbe rivedere o parzialmente modificare.

La salvezza delle raffinerie Isab, indirettamente controllate dalla russa Lukoil, era urgentissima. Il 5 dicembre, con l’entrata in fase operativa dell’embargo sul petrolio russo, gli impianti avrebbero infatti dovuto essere chiusi, con esiti esiziali. Le raffinerie danno lavoro a 10mila persone: chiuderle significherebbe precipitare in un disastro tutta l’area del siracusano. Ma il disastro non si fermerebbe nell’isola, dal momento che Isab copre da sola un quarto del fabbisogno nazionale di petrolio raffinato. La formula messa a punto dal governo con il decreto approvato i ieri prevede la nomina di un amministratore fiduciario come garante presso le banche, che al momento hanno sospeso il credito, in attesa che Lukoil venda le raffinerie.