Via dall’impressionismo, a scuola dal Talismano
A Parigi, Musée d'Orsay, "Le Talisman de Sérusier, une prophétie de la couleur", a cura di Estelle Guille des Buttes-Fresneau e di Claire Bernardi Una mostra-focus sugli effetti immediati che ebbe sui giovani artisti indipendenti, tramite la tavoletta realizzata da Paul Sérusier a Pont-Aven, la lezione bretone di Gauguin: brillano le piccole primizie nabi di Bonnard, Denis, Vuillard, Roussel
A Parigi, Musée d'Orsay, "Le Talisman de Sérusier, une prophétie de la couleur", a cura di Estelle Guille des Buttes-Fresneau e di Claire Bernardi Una mostra-focus sugli effetti immediati che ebbe sui giovani artisti indipendenti, tramite la tavoletta realizzata da Paul Sérusier a Pont-Aven, la lezione bretone di Gauguin: brillano le piccole primizie nabi di Bonnard, Denis, Vuillard, Roussel
Rientra in una precisa categoria, le opere che trascendono la propria singolarità estetica per imporsi come manifesti di una svolta, oggetti di uno spiccato ‘sentire’ storico: Il Talismano di Paul Sérusier. Intorno a questa tavola di formato minimo (27 x 22), che nei manuali viene presentata come la scintilla del movimento nabi, avendo legato l’esperienza di Gauguin a Pont-Aven con quella di alcuni indipendenti dell’Académie Julian a Parigi, il Musée d’Orsay, insieme al Musée de Pont-Aven, ha organizzato una mostra-focus, che si può ancora vedere fino al 2 giugno: Le Talisman de Sérusier, une prophétie de la couleur, a cura di Estelle Guille des Buttes-Fresneau e di Claire Bernardi.
Nell’ottobre 1888, di ritorno da Pont-Aven, Sérusier, massier alla Julian, mostrò ai suoi condiscepoli e amici, Paul Ranson, Henri-Gabriel Ibels, Pierre Bonnard e Maurice Denis, che qui scrive, «una tavola raffigurante un paesaggio dipinto seguendo le indicazioni di Gauguin: una veduta del Bois d’Amour, informe a furia di essere elaborata sinteticamente, che intitolò Il Talismano, e che più tardi mi affidò come una reliquia». Dall’antica collezione Denis a Saint-Germain-en-Laye la tavoletta è poi passata allo stato francese ed è ora proprietà del D’Orsay.
Esposta all’avvio della mostra, si può vedere anche nel verso, dove la scritta è di Sérusier, che documenta di aver compiuto l’opera, appunto, «sous la direction de Gauguin». L’analisi del supporto ha rivelato in questa occasione che il tipo di legno utilizzato è pioppo, dunque verrebbe meno l’idea inveterata che si trattasse del coperchio di una scatola per sigari, prodotto fatto in genere di legni più esotici e profumati. Dalla superficie pittorica, poi, è emerso che l’artista utilizzò manico e ghiera del pennello per graffiare qua e là; non mancano diverse impronte digitali, più o meno volontarie.
Nel linguaggio iniziatico di quei giovani buontemponi abbigliati all’orientale che furoni i Nabis, «talismano» indica la rivelazione di un linguaggio nuovo, descritto da Denis, nel saggio-manifesto del 1890 Définition du Néo-Traditionnisme, con la frase, divenuta fatidica, «ricordare che un quadro, prima di essere un cavallo da battaglia, una donna nuda o qualsivoglia aneddoto, è essenzialmente una superficie piana coperta da colori messi insieme in un determinato ordine». C’è in nuce l’astrazione, cui tende del resto Il Talismano, e infatti, nella svolta fra Otto e Novecento, se Cézanne apre al cubismo, cioè una specie di realismo integrale, è Gauguin a offrire il destro a uno sviluppo che condurrà all’astrattismo.
Sintesi plastica, bordatura risentita delle forme, zone giustapposte di colore squillante e compatto, propensione all’arabesco, negazione radicale della prospettiva e spazialità a stacchi orizzontali sul piano, come negli xilografi giapponesi: l’arte di Gauguin aveva caratteristiche facili a irrigidirsi nella formula, e i seguaci più avvertiti lo intesero immediatamente. La risoluzione improvvisa di molti dei problemi che, nella ricerca di un’alternativa all’impressionismo, occupavano i loro anni di esordio, poteva costituire una trappola. Sérusier, troppo entusiasta e dottrinario, cadde nella trappola, da cui sortirono dipinti perfettamente scolastici (seppure di una scuola di novità), cioè a dire desunzioni illustrative di principi che implicavano ben altra intelligenza operativa: ecco dunque i suoi arazzi bretoni, secchi, disegnati, intinti di uno spiritualismo esoterico che, mancando la libera ricerca pittorica, scade facilmente in letteratura. Idem, Paul Ranson, che nel suo Paysage nabi, del 1890, forza gli aspetti calligrafici fornendo una specie di bambinesco prontuario di esotiche magie prêt-à-porter.
Di livello superiore, Jan Verkade, il giovane olandese che era stato presentato a Gauguin da un pittore a lui intrinseco, di tempra giapponesizzante, anch’egli olandese, Jacob Meyer de Haan. Non potendo seguirlo, Gauguin aveva affidato Verkade a Sérusier: da questo incontro nacque un sodalizio anche religioso, che testimonia come, al di là delle sceneggiate misticheggianti nelle riunione periodiche del bistrot del passage Brady, il mondo dei Nabis fosse attraversato da effettive inquietudini oltremondane. Denis, che era cattolico ortodosso, racconta nella biografia di Sérusier, scritta molto più tardi, nel 1942, di come Verkade, che aveva rinnegato il credo familiare, mennonita, vivendo da «miscredente», si fosse convertito dopo aver letto, su consiglio dell’amico, Les grands initiés di Édouard Schuré; e di come Sèrusier, che pure sembra conciliasse «dottrina cattolica e teosofia, senza farsi troppi problemi di ortodossia», aveva portato i Nabis agli incontri con i domenicani in un locale di Faubourg Saint-Honoré. Entrato nel monastero benedettino di Beuron, Verkade vi trascinerà Sérusier, a scandagliare la «matematica sacra» insegnatavi da padre Lenz.
Sappiamo come fra questi artisti gli aspetti religiosi trovassero il loro nutrimento figurativo, a partire dal caposcuola Gauguin, nelle manifestazioni della devozione popolare bretone, nella dolente rusticità dei crocifissi anonimi scolpiti nella pietra. Un tipo di folklore potentemente caratterizzato, che nei meno dotati, coloro che vanno sotto il nome specifico di Scuola di Pont-Aven, finiva per risultare schiacciante. Il caso di Émile Bernard, pittore non immune da questi rischi, è diverso, per la posizione storica che egli occupa, di deuteragonista nella svolta segnata da Gauguin. Ancora si discute anzi su chi abbia effettivamente la precedenza nella scoperta del principio-base del sintetismo, il cloisonnisme. Bernard, ricordiamolo, si era già indirizzato verso questa tecnica derivata dalle piombature delle vetrate gotiche nel viaggio bretone del 1887 fatto insieme a Louis Anquetin. Un nuovo fuoco sulla questione è stata la mostra del 2015 al musée dell’Orangerie, la prima, incredibile!, dedicata a Bernard, cui forse ancora non si perdona il successivo tradimento dell’avanguardia per un ritorno abbastanza anodino agli antichi maestri. Ma nei giorni di Pont-Aven, Bernard, ventenne, e di vent’anni più giovane di Gauguin, era nel vivo dello spirito di ricerca, ed esercitò sul maggiore il suo fascino di ragazzo-prodigio, coltissimo, serio, brillante nelle formulazioni teoriche.
Di lui, in mostra, Madeleine au Bois d’Amour, 1888, denota bene il coefficiente simbolista dell’esperienza di Pont-Aven, e di Le Pouldou, l’altro polo bretone della vicenda, dove un anno dopo si ritrovarono, nell’«atmosfera tragica» di «gigantesche dune che si accavallano come un mare di sabbia» (John Rewald), Gauguin e Sérusier. Il successivo Les hêtres de Kerduel di Denis, 1893, con le celebri verticali degli alberi verdi, e l’insistenza sul motivo dell’edenico luogo di verità, definisce ancora meglio i termini di questo simbolismo, nutrito anche dalle purezze, sempre disponibili, di Puvis de Chavannes. Un simbolismo che sul piano teorico fu inquadrato immediatamente, già nel rendiconto della mostra sintetista del Café Volpini, 1889, dal critico fiancheggiatore, di vita brevissima, Albert Aurier.
Al di là delle conseguenze di vasta portata sulle avanguardie del Novecento, dalla mostra risulta chiaro come le scoperte di Gauguin e Bernard trovino nelle primizie nabi di Bonnard, Denis, Vuillard, un po’ più in basso Roussel, la loro espressione più viva. Freschezze di una lingua appena scoperta, che incantano soprattutto in Denis, a questa altezza cronologica artista eccellente nel mescolare ardore sperimentale e candore evangelico. È colui che si spinge più in là nell’abbreviazione a toppe di colore del dato di realtà: in Tache de soleil sur la terrasse quasi astrae proprio come nel Talismano di Sérusier. Sono tutti quadri piccoli e minimi, che raffrontati ai vasti pannelli da arredamento possibili a vedersi, fino al 30 giugno, al Musée du Luxembourg, nella mostra Les Nabis et le décor, suggeriscono di riflettere su come il formato si adatti più o meno alle qualità intrinseche di uno stile: e nei Nabis certa preziosità e perfino capziosità, certo gusto «da sillabario» nell’arabescare a punta di pennello, non trova agio nella dimensione maggiore, un po’ come se si volessero dilatare le miniature persiane.
E Sérusier? «Ornare una superficie consiste nell’evidenziare le buone proporzioni», ha scritto nell’ABC de la peinture, pubblicato nel 1921 (muore nel ’27). Le sue speculazioni matematiche alla ricerca di un «linguaggio universale» qualche critico le ha giudicate più adatte a un’epoca successiva, e del resto lo stesso Sérusier si considerava cubista ante-litteram, ed è stato importante, come maestro all’Académie Ranson, per Roger de la Fresnaye. Dipinte verso gli anni dieci, ha lasciato una serie di strane tele in cui varie forme geometriche vagano come oggetti non identificati su un fondo astratto di cielo: Tetraedri, Le Cylindre d’or, ovvero quando la pittura esce da sé per farsi potenza di se stessa, nell’illusione di competere con la metafisica.
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