Arroccato sull’Appennino lucano, ai bordi del parco nazionale del Cilento e Vallo di Diano, Caggiano non è l’ennesimo borgo tirato a lucido, è semplicemente un paese. Bello e neppure troppo piccolo, dalla storia lunga e molto italiana, scandita nei secoli dalle invasioni e dalle migrazioni, travagli e conquiste che hanno lasciato segni e ferite nelle sue architetture di pietra, castelli chiese e palazzi oggi per lo più silenziosi.

Tra questi, Palazzo Morone, esposto al sole e al volo dei falchi, le cui stanze sono dallo scorso giugno abitate dalle opere e dal pensiero di Vettor Pisani. Grazie all’intraprendenza di Giuseppe Morra, da mezzo secolo animatore culturale e collezionista che a Napoli ha incontrato il mondo, e alla lungimiranza dell’amministrazione comunale, che ha messo in gioco il proprio patrimonio di residenze un tempo nobili, Caggiano accoglie infatti gli archivi e un’importante collezione di lavori di Pisani, artista eccentrico e per molti versi inafferrabile che nel corso della sua ricerca si è mantenuto sempre lontano dalle logiche dominanti (omologanti) del global art world.

Fin dai suoi esordi, accompagnati nei primi anni settanta dalle parole e dalle strategie espositive di Achille Bonito Oliva che – è una coincidenza o un indizio? – proprio a Caggiano è nato nel 1939, Vettor Pisani ha condotto con coerenza una ricerca insubordinata ed eccedente, all’incrocio, spesso ironico, sempre urticante, tra discipline iniziatiche e saperi archeologici, dando spazio a una tradizione di pensiero e di immagini di cui la sua opera si è nutrita con intelligente crudeltà. In particolare, Vettor Pisani ha intessuto un fitto dialogo con Marcel Duchamp, protagonista nel 1970 della sua personale d’esordio alla Galleria La Salita di Roma (Maschile, femminile e androgino. Incesto e cannibalismo in Marcel Duchamp), e proprio passando attraverso l’«icono-logica» (Maurizio Calvesi) del Grande Vetro ha riconosciuto nell’alchimia uno spazio privilegiato di interrogazione e di creazione. Un processo di scavo, un’archeologia della psiche che l’enfant prodige dell’arte italiana ha condotto secondo la lezione, discussa e comunque potente, di Freud, figura ricorrente negli ordigni visivi di Pisani, e di Lacan: una riflessione operativa che agisce, certo, al livello del linguaggio (presentando nel 1975 Lo scorrevole, Bonito Oliva scriveva che l’artista privilegia «l’aspetto emblematico e simbolico del segno») e che però sprofonda oltre la superficie dell’opera suscitando turbamenti e reazioni nello spazio della vita, che è sempre (anche) spazio della morte.

La ricerca di Vettor Pisani è in ogni sua manifestazione inquietante: lo era nell’opera e operazione di Plagio (1971), in cui erano stati convocati Man Ray e Meret Oppenheim con la complicità di Michelangelo Pistoletto, lo è stato nel progetto mai concluso del R.C. Theatrum, come pure nel paradossale ed efficace Museo della Catastrofe, il Virginia Art Theatrum messo in scena nella dismessa cava di travertino di Serre di Rapolano, un sito che in un gesto di esposizione e, quindi, di implicita sparizione (di «definitivo occultamento» per dirla con Breton) dava forza di paesaggio all’intero processo creativo di Vettor Pisani, scomparso nel 2011 a Roma.

Un artista «povero e famoso»: così Pisani si è definito, contribuendo in maniera sistematica alla costruzione della propria leggenda – quella leggenda dell’artista di cui scriveva Ernst Kris, storico dell’arte e psicoanalista – , un’invenzione molto letteraria e, insieme, una rivelazione, secondo la quale era stata Ischia e non Bari a dare i natali a Vettor Pisani, classe 1934. E proprio a Ischia, isola del mito che tanto spesso l’artista ha vestito d’oro, si è tenuta nel 2005 la mostra Nostalgia. Volo di Ritorno, mostra che, insieme a Carpe Diem e Apocalypse Now, entrambe del 2011, ha generato la collezione della Fondazione Morra ora proposta a Caggiano, in un allestimento che vede Giuseppe Morra promotore di un altro racconto espositivo monografico, diverso eppure analogo a quello del Museo Archivio Laboratorio per le Arti Contemporanee Hermann Nitsch realizzato nel 2008 in una vecchia centrale elettrica a Napoli, uno spazio fuori dal comune in cui l’azionista viennese ha lavorato negli ultimi anni della sua vita.

Scegliendo ora di abbandonare la città per dare più sensibili orizzonti alle attività della sua Fondazione, che negli anni ha raccolto ed esposto non solo opere ma archivi prestigiosi – uno per tutti, quello del Living Theater, anch’esso destinato a Caggiano –, Morra ha dunque dato casa, permanente ma non immobile, a Vettor Pisani, i cui lavori occupano le stanze asimmetriche di palazzo Morone, un agglomerato di costruzioni antiche caratterizzato da continui sbalzi di quota, improvvise aperture e passaggi segreti. Rovesciandone luci e prospettive, le opere di Pisani, intessute «di storia dell’arte e di storia delle idee» (Lorenzo Mango), non disegnano un lineare itinerario, propongono piuttosto un poetico e straniante «bosco di simboli» in cui cercare ogni volta un orientamento possibile.

Certo, un percorso al visitatore è stato suggerito, va dagli inferi al cielo, ma le installazioni, le sculture, i disegni di Pisani eludono in realtà ogni definitiva interpretazione, sono in trasformazione costante, e non solo perché il vivente qui non è evocato ma è presente in forme tanto araldiche quanto organiche: nella piccionaia dell’edifico si muovono, maestosi, due pavoni, mentre sono decine le chiocciole che si disperdono liberate tra le opere. Il loro guscio a spirale rimanda, in un gioco di citazioni che è, come di consueto in Pisani, appropriazione e metamorfosi, alla testa di Sigmund Freud, in cui Dalì aveva riconosciuto appunto la forma di un escargot, protagonista di un disegno che accoglie oggi i visitatori del Freud Museum di Londra.

Che si parta dai sotterranei per un’ascesi mai veramente salvifica o si navighi a vista tra isole e uova di struzzo costeggiando le pelli di Agnus dei (1970-2011), cercando magari il punto di vista più corretto per comprendere con lo sguardo e con il pensiero l’installazione Vergine nera (2007), a prevalere è sempre un sottile disagio, un’incertezza che impedisce ogni facile asseverazione.

Opera d’arte totale, il museo è, come ogni singola opera di Vettor Pisani, perturbante, ovvero a un tempo familiare e occulto. Mette in atto un’epifania pop ed erudita del rimosso che, come ebbe a scrivere Mario Perniola a proposito delle «cose» impure di Pisani, oltrepassa lo statuto dell’opera d’arte per aprire alle vertigini del sacer, sacro, ed esecrando la cui voce risuona più forte nella quiete, piena di promesse e di incognite, dei vicoli di Caggiano.