«A quel tempo l’aria era satura del profumo greve di quei fiori bianchi che donne e ragazze avvolgevano alla crocchia. Prima del bagno, le donne sedevano fuori delle loro camere, sulla veranda, lo specchietto innanzi al viso e mettevano in ordine le trecce. La crocchia era applicata con cura mediante un nastro nero e acconciata nei più vari modi. Portavano i sari candidi dagli orli neri di Chandernagore, abilmente pieghettati, come esigeva la moda del momento», scrive Rabindranath Tagore in A quel tempo (1940). Anche quando si parla di esperienza olfattiva l’immaginazione è un ingrediente essenziale, non meno del ricordo che pure a essa viene associato. Luoghi, momenti: l’odore di chiodi di garofano delle kretek (sigarette) arrivando all’aeroporto di Jakarta o il tabacco alla frutta dei narghilè di El Fishawy, storico caffé di Khan al-Khalili al Cairo (citato anche da Nagib Mahfuz), il patchuli venduto nei bazar indiani così di moda in Occidente negli anni settanta e ancora la fragranza di acqua di rosa della mahalabia, ricetta tipica della cucina levantina.

Il profumo è una «scultura dell’invisibile» indifferente al genere: in Oman gli uomini indossano la tradizionale tunica (dishdasha) che ha una nappa (furakha) che pende di lato al collo impregnata di profumo con essenza di franchincenso. Una vecchia usanza quella di avvicinare, di tanto in tanto, il pendaglio di fili di seta alle narici per rigenerarsi attraverso l’intensità dell’effluvio.

Del resto anche i rituali domestici (e non) dell’ospitalità, nei paesi della penisola arabica, prevedono l’utilizzo purificatore dell’incenso, come mostra il teatro delle ombre Rituels de réception nel video realizzato da Olam Production/IMA in occasione della mostra Parfums d’Orient all’IMA – Institut du monde arabe di Parigi (fino al 17 marzo), curata da Agnès Carayon e Hanna Boghanim con la partecipazione del profumiere Christopher Sheldrake e di Frédéric Walter per le creazioni olfattive. Premere il bottone e avvicinarsi per aspirare il sentore intenso di legno d’Oud, ambra grigia e incenso segna anche l’inizio del viaggio nei profumi d’oriente sui due piani dell’edificio. Un percorso che dall’antichità procede fino al presente in un affascinante dialogo tra reperti archeologici (a partire dalla tavoletta sumera con le prime ricette di profumi), manoscritti miniati (la copia del 1082 del De materia medica di Dioscoride aperta sulla raccolta del balsamo della Giudea detto anche Balsamo della Mecca o di Galaad), manufatti tradizionali e opere di artiste e artisti contemporanei, tra cui Rirkrit Tiravanija, Lara Baladi, Farah Al Qasimi, Reem al-Nasser, Aisha Alsowaidi, Huda Lutfi, Majida Khattari, Nadim Asfar, Mehdi-Georges Lahlou, Eman Ali.

A proposito di incenso, proprio Freya Stark nel primo capitolo di Le porte dell’Arabia (1936) ne descrive con precisione l’aspetto commerciale e la raccolta: «L’incenso di maggior pregio cresce a tre giorni di cammello dalla costa; le qualità medie provengono dai pendii e dalle sommità delle colline; il tipo inferiore viene raccolto vicino al mare. Ma anche altre condizioni determinano il valore della resina: il colore, che (cosa già notata negli inventari di Ramsete III) va da un grigio ambra a un verde giada pallido e luminoso come il chiaro di luna, a un marrone pietroso, simile al colore di un ruscello del Dartmoor; il formato e la percentuale di sabbia luccicante con cui gli arabi tentano discretamente di aumentare il peso della loro mercanzia: tutto ciò determina il valore dell’incenso, che varia dalle 80 alle 10 sterline per tonnellata. Da marzo ad agosto gli arabi praticano delle piccole incisioni nella corteccia degli alberi: il lattice impiega da tre a cinque giorni a solidificarsi, secondo le condizioni atmosferiche; se il sole non è abbastanza caldo, la resina deve finire di seccare sul terreno».

Anche le spezie sono ingredienti essenziali nella realizzazione dei profumi più noti dei souq arabi (nelle fotografie a colori di Vladimir Antaki della serie The Guardians sono protagonisti i venditori di profumi del souq di Muscat in Oman) – nadd, ramikk e ghaliyya – realizzati con olii, muschio di cervo, ambra grigia (derivata dall’apparato digerente del capodoglio), resina di zafferano, cannella e altre sostanze odorose. La cura del corpo è un altro aspetto importante, sin dall’antichità, nel mondo arabo: ai rituali dell’hammam si riferisce la miniatura persiana del XVI secolo, mentre nel video Shedding Skin l’artista yemenita-americana Yumna al-Arashi, giocando sull’estetica orientalista, ne ribalta l’esotizzazione/erotizzazione propria dell’immaginario maschile occidentale per sottolineare, piuttosto, l’aspetto sociale del luogo in sé dove le donne dispongono da sempre di un consapevole spazio di libertà.

Nella sala dell’IMA anche la torre di sapone di Aleppo, la cui storia risale a 3000 anni fa, con il suo sentore di olio d’oliva e alloro è associata al concetto di «bagno turco», creando un fil rouge con le parole di Suad Amiry in Damasco (2016). La casa di famiglia, per la scrittrice palestinese, è il fulcro dell’evocazione di un passato in cui la zia Karimeh prendeva per mano i nipoti e, intorno alla vasca di pietra circolare piena di acqua calda, lavava loro capelli e faccia con sabun ghar, il sapone di Aleppo al mirto. «E se, tra i tanti profumi di Beit Jiddo, ce n’è uno che ricordo meglio degli altri, è proprio la fragranza di questo sapone divino. Ancora oggi la fragranza carica di nostalgia del sapone al mirto mi fa venire le lacrime agli occhi; mi ricorda anche quanto bruciava se ci finiva dentro, Dio se faceva male!».

Ai motivi ornamentali del ricamo tradizionale palestinese s’ispira l’artista francese Laurent Mareschal con Beiti, effimero «tappeto» realizzato in situ con spezie quali sommacco, zaatar, pepe bianco, curcuma e zenzero. I profumi d’oriente, si sa, sono strettamente connessi anche con la cucina. «Ricordo ancora l’intenso profumo di menta e limone che in quel periodo riempiva la casa e si sprigionava dai vestiti e dai corpi di madre e figlia, come una scia, quando camminavano per strada», scrive Shirin Ebadi in La gabbia d’oro (2008). Ingredienti che ritroviamo nella preparazione dei waraq inab, gli involtini di foglie di vite del video Nafas Immi: In the kitchen with Mama di Mirna Bamieh, girato da Marta Wot nel maggio 2023 a Ramallah (Palestina). Recuperando il vecchio ricettario, l’artista restituisce a una gestualità antica e quotidiana quel sapore di continuità che è un’azione politica di affermazione della memoria, non solo un irrinunciabile momento di conforto.