Accade talvolta che gesti d’insubordinazione giovanile o comportamenti considerati riprovevoli siano all’origine di viaggi memorabili, reali o immaginari. Il repertorio cui attingere è ampio: basti pensare alle straordinarie peregrinazioni di Robinson Crusoe da un capo all’altro dell’Oceano Atlantico, scaturite dal desiderio di sottrarsi al destino familiare, o agli itinerari avventurosi di molti scrittori romantici (Mary Wollestonecraft, Wordsworth, gli Shelley, Lord Byron), in fuga – spesso a piedi – dal conformismo britannico attraverso un’Europa messa a soqquadro dai moti rivoluzionari. Ebbene, il tragitto di Patrick Leigh Fermor dai Paesi Bassi a Costantinopoli, raccontato nel volume uscito per Adelphi Fra i boschi e l’acqua (traduzione di Adriana Bottini e Jacopo M. Colucci, pp. 290, euro 19,00), sembra appartenere proprio alla categoria del viaggio della disobbedienza trasformato in un inno alla cittadinanza universale. «Dopo una vita di disastri scolastici e di brutte pagelle, adesso le mie sorti sembravano improvvisamente cambiate. A partire dalla mia sosta a Monaco, le lettere che esortavano ad accogliermi con gentilezza si erano andate propagando verso est, schiudendo cornucopie di calorosa e illimitata ospitalità via via che raggiungevano i loro destinatari».

Fermor ha diciotto anni quando, espulso dalla King’s School di Canterbury (la stessa prestigiosa scuola nella quale aveva studiato W. Somerset Maughan, un altro instancabile viaggiatore in Oriente di quegli anni) decide di attraversare a piedi l’Europa continentale diretto a Istanbul. Siamo nel 1933, annus horribilis della storia europea. La prima parte del viaggio, da Rotterdam al confine slovacco, è narrata in Tempo di regali, pubblicato in Inghilterra nel 1977 e uscito per Adelphi nel 2009. Fra i boschi e l’acqua racconta la seconda parte del viaggio, dalla Slovacchia alle Porte di Ferro: il mitico luogo di passaggio degli argonauti trasformato nell’imponente diga serba di Djerdap, colpevole di aver «addomesticato» centrotrenta miglia di selvaggio Danubio in un «lago senza personalità». Nei quattro decenni che seguono quel primo viaggio a Istanbul Fermor farà in tempo a diventare un eroe di guerra, a perlustrare il mondo in lungo e in largo e, negli intervalli, a mettere ordine tra taccuini e diari, rispolverando ricordi sbiaditi.

Il risultato dell’adrenalinico vitalismo del viaggiatore impenitente, che richiama, come scrive all’inizio, «l’atteggiamento di una foca nei confronti dell’aringa che le viene lanciata», è un libro di superba fattura, dotto e allo stesso tempo appassionante, capace, anche grazie alla lunga gestazione, di coniugare la curiosità del travelogue settecentesco con la promessa di emancipazione umana che anima il romanzo di formazione ottocentesco.

In un’epoca caratterizzata da immaginari globalizzati e da una World Literature avvertita come la cifra di un mondo che avrebbe superato le barriere di colonialismi e imperialismi, Fra i boschi e l’acqua sembra andare controcorrente nel voler resuscitare un gusto esotico un po’ fané e nel ricondurre l’esperienza del viaggio alle sue matrici antecedenti al turismo di massa: il pellegrinaggio, la fuga nella natura, la regressione verso l’antico, il percorso iniziatico. Senonché, quello di Fermor è un esotismo rilassato, immune da autocompiacimenti culturali, che si alimenta di un gusto Biedermeier per il dettaglio e di un uso lirico e visionario del paesaggio degno di Blake e di Samuel Palmer. Se il viaggiatore degli anni trenta è troppo ingenuo per essersi già trasformato in uno sciovinista, e attraversa le regioni danubiane in uno stato di perenne eccitazione, lo scrittore degli anni settanta e ottanta è troppo disincantato per pensare ancora al mondo in chiave anglocentrica. Impossibile non avvertire in questa prosa ironica e elegante echi del sofisticato orientalismo di Lady Montagu o di Robert Byron, i quali, insieme a Kipling, rappresentano i modelli narrativi più evocati.

Benché accattivante, l’idillio pastorale suggerito dal titolo rivela presto un tratto vagamente ingannevole. Da un lato, sullo sfondo di una geografia arcadica composta di «cicogne pasquali», «ippocastani in fiore», «labirinti silvestri», «cervi in corsa» e «agnelline veggenti», si snoda un campionario di umanità sconvolta da conflitti sanguinosi e forzatamente rimescolata dallo smembramento dell’Ungheria sancito dal Trattato di Trianon, con conseguenze altrettanto drammatiche di quelle originate dalla Partizione del Pakistan. Dall’altro, il previsto itinerario a piedi – una scelta originariamente dettata dal desiderio di contatto con la materialità della terra e dei popoli – si trasforma presto in un novello Grand Tour, che conduce Fermor attraverso i casati più ricchi e blasonati dell’Europa orientale, col prevedibile risultato di circonfondere il viaggio del «pellegrino o del chierico vagante» di un’aura di romantica e aristocratica elezione che ne capovolge le democratiche premesse. Pur ammettendo che ogni tanto gli rimordeva la coscienza «a essersi allontanato così tanto dal progetto iniziale», Fermor dichiara che i rimorsi svanirono col tempo al pensiero di come i disastri della Guerra, i cambi di sovranità e le perdite territoriali successivi al suo viaggio avessero azzerato il patrimonio di umanesimo tipicamente mitteleuropeo – linguisticamente, culturalmente e religiosamente mescolato e plurale – che aveva reso il soggiorno in quelle regioni una sequenza ininterrotta di esperienze estatiche.

Col senno di poi, l’inedito percorso «tra letti a baldacchino e stalle», compiuto dal Candide britannico tra il 1933 e il 1934, aveva assunto i contorni di una lenta e privilegiata illuminazione. Lontano dalle nubi che si addensavano sull’Europa occidentale, al cittadino di un impero in piena decadenza – nel quale le scelte individuali, anche le più idiosincratiche, avevano sempre rappresentato il fiore all’occhiello del sistema – era dato assaporare la bellezza di un cosmopolitismo di ritorno la cui idea di nazione si fondava sulla comunanza di forme naturali, di cultura e di stili di vita, anziché su parentele linguistiche o etniche.

Fermor, tuttavia, rifugge dalla politica. Benché tra i boschi e l’acqua delle Grandi Pianure ungheresi e delle foreste carpatiche si imbatta in tracce indelebili di storia remota e recente, il suo «giovanile torpore politico», candidamente ammesso sin da Tempo di regali, tende a riassorbire tutto in una visione estetizzante, che attribuisce uguale importanza agli «incantesimi allitterativi» del magiaro, ai lupi mannari delle leggende transilvaniche, ai preziosismi bizantini della Corona Apostolica ungherese, all’abbigliamento degli zingari «villosi e scarruffati», così come all’ultima invasione tataro-turca del 1788.

È questo vivace e mai pittoresco crogiolo di aneddoti, oggetti e meditazioni, nel quale – come in un souk – ogni elemento viene impreziosito dalla presenza degli altri, a far rientrare Tra i boschi e l’acqua nella migliore tradizione del travelogue orientale, malgrado il racconto si fermi alle Gole del Danubio e Istanbul resti una meta lontana. Se pure non fosse lo splendido libro che è, a renderlo interessante basterebbe il suo dar prova di un fatto di cui non sempre gli scrittori europei si sono ricordati. Ovverosia che, prima di essere uno spazio geografico, l’Oriente è un protocollo di sguardi su persone e cose dotato di straordinaria forza narrativa che, proprio per questo, va maneggiato con estrema cautela. Non molti viaggiatori sono stati in grado di farlo, ma Patrick Leigh Fermor appartiene senza dubbio all’esigua minoranza che ci è riuscita.