Verso la terza guerra del Golfo
n attesa di una rivoluzione energetica il Mediterraneo rimane al centro dei grandi conflitti per il controllo del petrolio
n attesa di una rivoluzione energetica il Mediterraneo rimane al centro dei grandi conflitti per il controllo del petrolio
Legambiente ha pubblicato un breve dossier intitolato «Signori della guerra, signori del petrolio», gettando uno sguardo allo scacchiere siriano e mediorientale. Una lettura quanto mai netta e semplice, ma tristemente vera e difficile da contestare, di come da decenni, e forse nel corso dell’ultimo secolo in buona parte di esso, le guerre hanno trovato una loro principale motivazione nel controllo delle risorse dell’oro nero. E’ comunque legittima, e condivisibile, la domanda a cui l’associazione ambientalista cerca di rispondere. Perché da dopo le crisi petrolifere degli anni ’70, e soprattutto negli ultimi venti anni, abbiamo avuto una recrudescenza dei conflitti per il petrolio? La risposta guarda ad un paradosso, ossia che l’utilizzo di petrolio in realtà non sta aumentando significativamente come in passato: solo il 5 per cento in più al 2020 ed un altro aumento analogo fino al 2040, anno in cui le rinnovabili secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia potrebbero superarlo. Quindi, se si vuole, il significativo spostamento verso le rinnovabili negli ultimi anni sta diminuendo l’importanza relativa del petrolio, che finalmente volgerebbe al termine. Allo stesso tempo, però, dopo la sbornia di investimenti in fonti non convenzionali di petrolio e gas, il prezzo del greggio è tornato molto basso e probabilmente rimarrà tale per un po’. Perciò pochi saranno i nuovi investimenti.
Uno sguardo più attento sul conflitto multiplo in Siria ci dice che proprio petrolio e gas creano e disfanno schieramenti, generando sempre più entropia geopolitica e conflitti nella regione. Sin dal 2011, diversi studi hanno esplicitato il potenziale di idrocarburi di tre giacimenti al largo delle coste siriane. Nel 2014 l’esercito Usa ha affermato che tali risorse sono parte di un sistema più ampio di giacimenti nel Mediterraneo orientale, che rappresenta un’opportunità per ridurre la dipendenza europea dal gas russo e rafforzare l’autonomia energetica di Israele. «Una volta risolto il conflitto siriano, le prospettive per la produzione offshore siriana sono molto alte», a scriverlo è Mohammed El-Katiri, consigliere del ministero della difesa degli Emirati Arabi Uniti ed ex capo ricercatore dell’Advanced Research and Assessment Group (ARAG) del ministero della difesa britannico.
Ma il progetto occidentale va in rotta di collisione con l’obiettivo di Assad e dei suoi due principali sostenitori, Russia ed Iran, secondo cui la Siria dovrebbe divenire «un centro di trasbordo tra la Russia e l’Iran da un lato e l’Europa dall’altro» – nelle parole di Nafeez Ahmed, Direttore esecutivo dello Institute for Policy Research and Development. Da cui la proposta del gasdotto «sciita», Islamic Gas Pipeline, che collegherebbe Iran, Iraq e Siria per poi essere esportato in Europa escludendo la Turchia, da cui transita invece il gas azero e del Caspio. La Russia ha quindi ottenuto licenze esplorative offshore al largo della Siria per la Soyuz Nefte Gas nel 2013 e poi recentemente sospeso l’idea del Turkish Stream che avrebbe portato il gas russo in Europa – dopo che i governi europei avevano boicottato il progetto South Stream dalla Russia alla Bulgaria, come rappresaglia contro l’occupazione della Crimea. Come se non bastasse un terzo progetto “sunnita” di gasdotto è stato avanzato dal Qatar, passando per Arabia Saudita, Giordania, Siria e Turchia – con il beneplacito di Washington.
Dentro uno scenario così intricato si definiscono gli schieramenti: gli sciiti con il gasdotto dall’Iran, i sunniti con il gasdotto dal Qatar, gli occidentali e la Russia alla ricerca di spazi per i giacimenti già individuati. In un quadro del genere, tutt’altro che stabile e duraturo, si capisce bene perché a un certo punto l’Occidente ha appoggiato i ribelli, senza mai però premere l’acceleratore fino in fondo, ha attaccato l’Isis solo per contenerne l’espansione e lo stesso sul fronte opposto ha fatto la Russia, come se ci fosse un disegno che punta alla disgregazione territoriale della Siria e dell’Iraq in aree di influenza ben distinte.
E fin qui, qualcuno dirà che il grande gioco del petrolio continua come in passato, seppur con un maggior numero di pretendenti. Ma se poi si guarda a come l’Isis si è inserito con astuzia in questo gioco tramite un sistematico contrabbando di petrolio permesso dalla Turchia in una logica di controllo sunnita delle vie del petrolio e dei giacimenti, allora emerge con chiarezza imbarazzante che nessuno ha davvero interesse a distruggere l’Isis fino in fondo. In fin dei conti gli Usa ed i suoi alleati lo vogliono contenere – anche Obama ha usato in passato queste parole – e la stessa Russia lo vede utile per impedire alle forze occidentali di sbarazzarsi di Assad. E poi vi sono i paesi arabi che lo finanziano, da cui la guerra sul prezzo del petrolio tra l’Opec dominato da questi paesi per «affamare» la Russia e contenere, invano però fino ad oggi, la nuova autonomia energetica statunitense basata sullo shale gas e oil.
In attesa di una rivoluzione energetica – che si spera non riproduca una simile geopolitica anche nel settore delle energie rinnovabili – il Mediterraneo rimane ancora il centro della grande guerra per il petrolio, quasi inesorabilmente fino all’ultimo barile.
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